La Francia brucia. Non è la prima volta negli ultimi tempi, ma questa volta non si tratta di operai o pensionati in caduta sociale libera. Questa volta a protestare sono i giovani delle banlieu e i figli degli immigrati. E la loro non è una protesta pacifica: è violenta ed eversiva quante altre mai.
Le violenze che hanno messo a ferro e fuoco l’intero Paese sono esplose dopo l’uccisione da parte di un poliziotto di un giovane di origine algerina ad un posto di blocco. Ma la reazione esagerata ha dimostrato chiaramente che quell’uccisione, per quanto esecrabile e le cui dinamiche restano comunque ancora da chiarire, è stata solo la goccia che ha fatto traboccare un vaso ormai pieno, oppure se si preferisce la miccia messa su di un serbatoio saturo. La sinistra ha puntato subito il dito sul razzismo e sulla discriminazione diffusa che sarebbe propria di una parte della società francese e che andrebbe combattuta con una prevenzione fatta di leggi dure. Si sono persino previsti nuovi reati di opinione, come non bastasse quel che è successo quasi nelle stesse ore all’incauto allenatore del Paris Saint Germain, Christophe Galtier, che aveva osato dire che nella squadra c’erano troppi arabi e neri. Non è, né sarebbe, un bello spettacolo inasprire pene così aleatorie. Soprattutto per la patria dei lumi, lì dove è fiorita sin dal Settecento la liberté de plume affermata dai suoi philosophes.
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Se disagio c’è, le cause sono molto più profonde. A fallire drammaticamente è, in queste ore, la politica dell’integrazione e delle “porte aperte” che ha caratterizzato per anni la Francia. In primo luogo, l’idea che francesi si potesse diventare per una semplice adesione agli ideali universalisti della République, e cioè per una “naturale” assimilazione ai suoi principi di “pura Ragione”. Gli obiettivi colpiti dai rivoltosi sono proprio quelli statali, dalle scuole ai municipi, dalle caserme agli uffici pubblici. Sembra un paradosso ma non lo è: proprio l’idea di una pacifica “assimilazione” ha partorito un multiculturalismo di fatto che ha riproposto le differenze dividendosi il territorio nazionale per appartenenenza etnico-religiosa e sottraendolo alla giurisdizione dello Stato centrale.
C’era molta arroganza nella pretesa repubblicana, l’arroganza di parlare in nome della verità. E, soprattutto, c’era l’idea che le differenze culturali e storiche che sono il bagaglio di ogni essere umano potessero essere sradicate in un batter d’occhio, solo per un movimento della volontà. E c’è stata molta protervia e ipocrisia da parte di Emmanuel Macron che, nascondendo la polvere sotto il tappeto, si è permesso di dare lezioni all’Italia di Giorgia Meloni e Matteo Salvini proprio su una nostra presunta capacità di integrare. Speriamo che la lezione arrivi forte alle classi dirigenti europee, non solo francesi: solo controllando e governando l’immigrazione, limitandola drasticamente e selezionandola, scaglionandola nel tempo, si può sperare che i valori liberali e democratici su cui si fonda la nostra civiltà possano ancora avere un futuro.
Corrado Ocone, 2 luglio 2023