Finiti i ‘bla bla’ internazionali, con la bella festa del G20 di Roma e la scampagnata in Scozia, Draghi è tornato alla fredda realtà dei numeri italiani. E, purtroppo per lui, anche al fastidioso sciacquettio dei partiti del suo governo.
Draghi in balia dei partiti
Le tensioni non sopite tra Salvini e Giorgetti nella Lega, il braccio di ferro tra la coppietta “Ronzulli-Tajani” e il resto di Forza Italia, la resa dei conti nell’M5S tra ‘Giuseppi’ e Di Maio, mentre nel Pd la distanza di Enrico Letta dai suoi gruppi parlamentari è siderale. Super Mario è in realtà avvilito e, in cuor suo, sempre più pronto per il Colle. Preoccupato com’è dell’inadeguatezza conclamata dei suoi ministri cosiddetti tecnici (Franco, Colao, Cingolani e Giovannini), si è ormai reso conto che il prestigio internazionale di cui gode non fa breccia nell’operatività dei ministeri e, a cascata, in quella delle Regioni che si sentono abbandonate come in un Governo Conte qualsiasi.
Tensione tra il premier e i “suoi” ministri
È proprio questo che segnala quotidianamente Chiara Goretti, coordinatrice della “Segreteria tecnica del Pnrr”, già pupilla di Beniamino Andreatta e collaboratrice di mostri sacri come Carlo Azeglio Ciampi e Tommaso Padoa-Schioppa al Ministero dell’economia. La Goretti registra come le grandi opere, dalla rete di telecomunicazioni alle infrastrutture stradali e ferroviarie, non siano neppure sulla carta. I rapporti di Draghi con alcuni ministri sono pressoché glaciali. A uno di questi, peraltro tra i più autorevoli, dopo giorni di attesa per un appuntamento ha concesso solo otto minuti, per poi avvertirlo che aveva trenta secondi per concludere. Tipo quiz. Probabilmente ha ragione, perché non c’è tempo da perdere con lo spread che ha raggiunto i 134 punti. Segnale, purtroppo inequivocabile, dello stato comatoso in cui si trova l’Italia, tenuta in vita solo dalla terapia a base di ossigeno dei massicci acquisti di titoli di Stato da parte della BCE.
Pericolo spread
Non appena il mercato sospetterà che questo generoso flusso di denaro potrebbe venir meno, si libererà in fretta dei Btp italiani e lo spread diventerà a quel punto incontrollabile. Negli ultimi 13 anni il nostro Paese – e certo non per colpa di Super Mario – anziché il fatturato ha aumentato il debito di quasi il 40%. Tanto che nel 2023 la ricchezza nazionale prodotta sarà inferiore a quella del 2009 e l’indebitamento sarà passato dal 116% al 158% del Pil. E ora che è finita l’era Merkel, con il suo sensato ‘buonismo’ finale, tutti si chiedono sino a quando la Bce continuerà a comprare i nostri titoli e come saranno rivisti i parametri di deficit e debito in sede Ue.
A questa catastrofe, che Draghi cerca disperatamente di scampare rifugiandosi al Quirinale, si è giunti per l’inadeguatezza, passata e presente, dell’intera classe dirigente, dai sindacati alla politica. I partiti, oggi quasi tutti in cerca di autore, non si sanno neppure accordare al loro interno sulla definizione di famiglia, patria potestà e immigrazione, abdicando completamente alla gestione dell’economia italiana. Ora anche sul provvedimento sulla Concorrenza la Commissione Europea ha estratto il cartellino rosso. Fine degli amorosi sensi tra Ursula e Mario che si sorridono sempre ammiccanti? Speriamo di no.
Dal Governo Monti in poi, nessuno dei ministri che si sono succeduti in via XX Settembre (Grilli, Saccomanni, Padoan, Tria, Gualtieri e Franco) ha fatto a meno dei suggerimenti il più delle volte miopi di Bce e Banca d’Italia. Ora fanno tutti finta di credere alle proprietà salvifiche del Pnrr, 80 miliardi di euro a fondo perduto e 200 a debito che dovrebbero rilanciare il Paese e che i mandarini faranno partire solo in minima parte. Dimenticando volutamente di ricordare che degli 80 miliardi, 60 saranno versati dalla stessa Italia all’Europa per poi tornare indietro condizionati a vincoli, prescrizioni e riforme, e che molti dei piani di investimento non sono altro che vecchi progetti a cui è stato semplicemente tolto il finanziamento ordinario.
Mentre si procede verso l’orlo del burrone, sono tutti impegnati a capire chi andrà al Quirinale, nonostante nelle segrete stanze del Colle c’è chi lavora per la riconferma di Sergio Mattarella, anche con un’iniziativa pop: un grande concerto live, come fece a suo tempo Hillary Clinton ma che non portò fortuna, con il tema pro vaccini come “leit motiv”, che coinvolgerebbe i più importanti interpreti della musica italiana e si concluderebbe con un appello corale affinché Mattarella resti ancora sul Colle più alto di Roma, campagna del resto già partita con Premio Oscar Roberto Benigni e Marco Mengoni. Sarebbe il de profundis definitivo della politica italiana.
Luigi Bisignani, Il Tempo 7 novembre 2021