La chiusura delle scuole e delle università, al di là del provvedimento del governo per motivi sanitari, può rivelarsi un’occasione per ripensare il sistema dell’istruzione e della ricerca. La decisione straordinaria ha sollevato più di una pensosa perplessità del tipo: “Può l’Italia permettersi di chiudere le scuole? Quali saranno gli effetti sull’anno scolastico e sui livelli di istruzione?”. In realtà, il vero rischio per il grande baraccone scolastico-accademico è che la chiusura forzata mostri che non ci saranno conseguenze e che, per dirla tutta, le scuole e le università del nostro tempo sono perfettamente inutili se non addirittura dannose. Vista così, la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado è soltanto la elementare conseguenza della fine della scuola che si è consumata da molto tempo. È una sorta di funerale postumo.
Intanto, studiare non significa frequentare necessariamente una scuola o una facoltà. Anzi, per gli studenti e per i docenti la chiusura degli istituti è una grande occasione di studio. Si tende a credere, anche per comodo corporativismo e sindacalismo, che studiare significhi essere presenti a scuola. Ma il fenomeno della dispersione scolastica e dell’abbandono è la palmare incapacità dello Stato/governo di non riuscire più a tutelare il diritto allo studio e a garantire il rispetto dell’obbligo scolastico. Avendo confuso lo studio con l’indottrinamento e il lavoro con l’occupazione, lo Stato/governo non ha più le forze necessarie per garantire diritti e servizi (si pensi alle famiglie disagiate, ai disabili, alle periferie). La presenza a scuola e in accademia o è motivata da una necessaria esigenza di apprendimento o è solo un sistema burocratico autoreferenziale che alla lunga cade su stesso. Il caso italiano è da manuale.
La chiusura della scuola scopre una bugia: la scuola panstatale – quella di stampo napoleonico che, compresi gli istituti paritari che sono assorbiti dal sistema nazionale – risponde ad una sola mente che, proprio perché centralizzata, mente. Il caso delle lezioni on-line o a distanza, che di per sé elimina la figura del docente che può essere rimpiazzato anche da un video o da un computer, è esemplare: il 99 per cento delle scuole è impreparato proprio perché il sistema è panstatale ossia si basa sulla centralizzazione del pensiero e dell’azione. Se, invece, le scuole non rispondessero ad una sola mente – che poi è il ministero, povero noi! – e fossero il risultato delle forze sociali che si organizzano per creare e inventare scuole di cui il nostro tempo ha bisogno, allora, ogni scuola avrebbe potuto concepire lo studio e la maieutica secondo esigenze concrete e una tradizione di studii consolidati negli anni.
La chiusura della scuola è una grande metafora sull’organizzazione del sapere nel nostro tempo. Il governo, naturalmente, ne è totalmente all’oscuro. Ma spesso un’intenzione ne genera un’altra che non era stata prevista. La chiusura della scuola è una sorta di liberazione del tempo scolastico in cui si mostra che lo studio non coincide con il monopolio statale e il lavoro dell’insegnamento non coincide con l’occupazione scolastica. Non a caso se ne è reso conto un sindacalista come Landini che ha detto: “Sono sospese le lezioni ma il docente continui ad andare a scuola”. Che, come si può capire, è un totale controsenso sia per le esigenze sanitarie perseguite dal provvedimento governativo sia per il lavoro dell’insegnante che non può essere svolto senza studenti. Ma senza studenti i docenti possono fare una cosa che forse non fanno più da molto tempo: studiare. Nessuno impedisce sia ai professori e alle professoresse sia agli studenti e alle studentesse di studiare con la scuola chiusa e proprio perché la scuola è chiusa.
L’esperienza della chiusura è in realtà la scoperta della necessità dell’apertura allo studio. E aprirsi allo studio mostra in modo chiarissimo che la scuola è un necessario atto di libertà in cui lo Stato/governo non è il Tutto o l’ordine prestabilito ma solo una parte che deve concretamente conquistare la sua autorevolezza, se ne è capace, senza comandi ministeriali e senza monopoli.
Giancristiano Desiderio, 6 marzo 2020