Scuola

Le università vogliono più soldi? Cambino strada

© Djapeman e Weni Widyastuti tramite Canva.com

Su Repubblica la professoressa Giovanna Iannantuoni, rettrice della Bicocca e presidentessa di un’associazione di diritto privato che si chiama Crui (conferenza dei rettori delle università italiane), attacca ancora una volta le nuove imprese universitarie private (gli atenei online), avanzando pressanti richieste al governo Meloni. Che cosa chiede? Più soldi. Promette di fare la propria parte per affrontare gli annosi problema del sistema universitario italiano? No. Chiede semplicemente più denaro, quasi fosse la segretaria della Cgil Funzione Pubblica.

Nella stessa pagina, però, il quotidiano di via Solferino mostra come tutta una serie di piccoli atenei stia vedendo crollare gli iscritti (non è che magari dovrebbero lavorare meglio?), grazie anche alla concorrenza e al maggiore dinamismo delle università telematiche, che possono fare arrivare a Camerino oppure a Catanzaro lezioni di docenti che sarebbero assai poco disposti a trasferirsi in quelle realtà. Tutti sanno che il dramma principale delle università difese dalla Crui è il fatto che si tratta di aziende gestite da microbiologi, filologi romanzi, filosofi del diritto e urbanisti: professionisti che possiamo immaginare che siano pure eccellenti nel loro campo, ma che sono senza dubbio disastrosi quando si tratta di gestire realtà con migliaia di addetti. Non lo dico io: lo dice la realtà effettuale del sistema universitario italico.

La Iannantuoni è istituzionalmente schierata a difesa di quello che gli economisti chiamano l’incumbent: ossia l’apparato burocratico universitario tradizionale, che opera in una condizione di quasi monopolio e per giunta riceve somme ingenti dai contribuenti. Va anche aggiunto che se in passato la Crui ha tentato di darsi una veste “istituzionale”, lo scorso anno essa ha modificato lo statuto e ha escluso la possibilità per i rettori degli atenei telematici di iscriversi. In tal modo essa ha finito per svelare il suo volto: quello di un gruppo schierato a difesa delle università in presenza. Questo aiuta a comprendere perché la professoressa Iannantuoni evita accuratamente la questione dei piccoli atenei allo sbando, con un numero bassissimo di iscritti (e non solo al Sud), e anche dei grandi atenei sempre meno in grado di mettersi al servizio dello studente.

Oltre a ciò, l’elefante nella stanza delle università tradizionali è l’abbandono. Molti studenti si iscrivono alle università tradizionali e poi lasciano perdere. Ma anche quanti alla fine terminano gli studi molto spesso lo fanno da autodidatti, riducendo la loro frequenza già a partire dal secondo anno. Le università dette “in presenza”, per questo motivo, dovrebbe essere ribattezzate università “in assenza”. Di questo, però, non si discute mai. Ora le università statali chiedono più soldi. Prima però dovrebbero essere in grado di riformarsi. Ci vorrebbe più rigore, perché oggi – com’è chiaro da quanto fa l’Anvur (l’ente ministeriale chiamato a certificare la qualità degli atenei) – ogni valutazione riguarda i processi, e non i risultati. Quanto sono valide (soprattutto per gli studenti più bisognosi di un sostegno) le lezioni degli atenei di Stato? Qualcuno entra mai nelle aule per prendere in esame l’efficacia dei metodi espositivi e il valore degli argomenti trattati? Nessuno. Mai.

Tutto il processo che mette sotto una lente gli atenei riguarda altre questioni: dalla consistenza di questo o quell’ufficio (internazionalizzazione, disabilità, ecc.) al numero dei docenti strutturati, e via dicendo. La realtà effettiva dei corsi che arrivano agli studenti non è presa in considerazione, poiché è ritenuta non valutabile, anche se in realtà esistono giudizi chiaramente espressi dagli studenti: dato che spesso essi si iscrivono altrove, oppure smettono di frequentare e qualche volta anche di iscriversi.

D’altra parte, le università statali sono per lo più dominate dal medesimo spirito burocratico degli uffici del catasto e di Poste Italiane, oppure di un baraccone come la Rai. Nessuna sorpresa se alla fine funzionano grosso modo alla stessa maniera. Altrove è diverso. In America, ad esempio, le università sono spesso private e pure le altre devono seguire quella medesima logica: sono obbligate a mettersi al servizio degli studenti. In Svizzera invece sono pubbliche, ma al tempo stesso cantonali, e quindi sono costantemente al vaglio delle piccole comunità che le finanziano. Quando studiai a Ginevra sulla stampa si discuteva se il mio istituto dovesse essere accorpato all’Università oppure all’IHEID, oppure chiuso. Il rispetto che nella società elvetica è riservato alla qualità dei servizi offerti e alle risorse dei contribuenti dovrebbe essere considerato un esempio anche da noi. Purtroppo chi è dentro il grande ventre dell’università di Stato non ha il minimo interesse a farlo.

I difensori dello status quo, così, attaccano le nuove realtà telematiche perché temono di dover cambiare strada, abbandonando le vecchie abitudini e la loro comfort zone. La speranza è che il governo Meloni consideri in prima battuta le ragioni degli studenti e dei contribuenti, e solo in seconda battuta quelle degli apparati di Stato.

Carlo Lottieri, 28 aprile 2024

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