Marco Alverà è uno dei rarissimi manager con visione, giovane e con grandi contatti internazionali, che guida un’azienda pubblica (Snam rete gas). Ha scritto un libro che consiglio, Rivoluzione idrogeno, nonostante non creda ad una riga delle previsioni fatte nelle prime trenta pagine. In esse spiega le solite cose sul cambiamento climatico, sui rischi che corriamo (addirittura tre i gradi di aumento delle temperature possibile) e soprattutto la solita responsabilità dell’uomo. Chi conosce questa rubrica conosce bene le critiche al pregiudizio antropico sul «Climate change». E conosce la nostra battaglia laica contro le congetture che diventano fede.
Fatta questa lunga premessa, quando il discorso di Alverà si sposta sull’idrogeno, la cosa diventa affascinante. È certamente «conflicted» visto che per primo in Europa è riuscito a far passare nei suoi tubi il tradizionale gas, ma mischiato ad idrogeno. Ma il principio, tutto di mercato e poco papale, che esprime è convincente. L’idrogeno non esiste in natura, ma è combustibile, riserva di energia, che si può creare. Per farlo serve un bel po’ di elettricità. Ecco la chiave di volta. Potremmo usare quella generata dal fotovoltaico e dall’eolico (ci è costata uno sproposito, spiega il libro) che è intermittente e difficilmente immagazzinabile. Insomma potremmo trasformare l’energia verde dei pannelli in idrogeno, che si conserva meglio e si trasporta con minori perdite.
L’idrogeno dunque come una batteria. L’idea è più che suggestiva. L’Europa ha inoltre commesso la follia di costruire pannelli dove ci sono minori rendimenti (la Foresta Nera) perché ha adottato miopi piani nazionali: uno spreco. Si potrebbero istallare pannelli dove c’è più sole, tipo Nord Africa, trasformare in idrogeno e usare dove serve. Usando gasdotti, che con poche modifiche, potrebbero portare la molecola a quel punto verde con relativamente piccoli investimenti.