L’idea di Europa non si può toccare. E chiunque si avvicini all’altare con un approccio di sfida, viene ripudiato, escluso, eliminato. Eppure, come spiega benissimo un recente libro, (Dis)Unione Europea di Historica edizioni, le fratture che si sono verificate nel nostro continente sono di tale portata che varrebbe la pena farci un ragionamento sopra. Federico Cartelli ci ricorda come l’istituzione europea oggi sia tutt’altro che unita. E che la vittoria del partito europeista (non si capisce bene poi cosa unisca socialisti, popolari, liberali e verdi) su quello sovranista è tutt’altro che chiara. Non solo per la frattura parlamentare che sta facendo tremare la presidente designata, ma soprattutto per le sue fratture con il Regno Unito e gli Stati Uniti. Non si tratta di poca cosa.
Gervasoni nel libro ci ricorda infatti come l’europeismo buono italiano, quello che non è andato appresso alle sirene azioniste, è quello degasperiano, è quello del suo ministro del Tesoro Luigi Einaudi. Il loro europeismo era legato al posizionamento dell’Italia accanto agli Stati Uniti, al blocco atlantico. La loro partecipazione ai primi accordi economici europei (Giovanni Sallusti, nota in modo pungente, come Churchill, oggi tirato per la giacchetta europeista, si rifiutò di farne parte) fu una geniale intuizione einaudiana secondo la quale il «vincolo esterno» non rappresentava tanto l’austerity tedescocentrica, quanto l’adesione completa alle anglosassoni regole di mercato. Gervasoni, insieme a Lottieri di cui parleremo dopo, mette in chiaro la critica più forte all’europeismo delle nostre classi dirigenti. Intanto chiarisce una banale considerazione che vale la pena riportare: «Ci si può definire europei ed avere disistima del processo integrazionista».
E poi arriva a casa nostra. La prende da lontano, dalle calate dei francesi in Italia a fine ‘700 e dalla nostra folle e incosciente gioia giacobina. O meglio, la gioia delle élite del tempo. Che non capirono, come colse bene il Cuoco, come il popolo stesse da tutt’altra parte. E poi galoppa fino al manifesto di Ventotene, al suo spirito azionista, all’idea folle di fare un italiano nuovo, solo confondendolo con un nuovo cittadino europeo. Gervasoni ripercorre quel percorso che parte da lontano e che auspica un intervento esterno per rifare il «pessimo carattere» degli italiani. Il filo rosso di questo intelligente libro, che passa per un interessante saggio di Punzi sul pragmatismo anglosassone, si dipana completamente, nel capitolo conclusivo, affidato a Carlo Lottieri.