“L’Europa è una”. Cosa ci insegna il discorso di Lech Walesa

L’intervento a Rimini nel 1990 dell’ex presidente della Polonia e premio Nobel per la pace

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Le priorità si trasferiscono di padre in figlio. E questo trasferimento spesso avviene soprattutto grazie alle azioni: sguardi, parole, contatti, profumi che si mescolano agli eventi… si tratta di sensazioni che toccano più punti del nostro reticolato umano e che si impigliano in noi nel bene e nel male. Di solito nel momento in cui hanno luogo non abbiamo una comprensione cristallina di quel che accade, ma, a distanza di anni, anche di tanti anni, quella determinata esperienza riaffiora e ci indica qualcosa, magari ci spiega che cosa non fare oppure, in casi fortunati, ci indica addirittura in che direzione incanalare le nostre energie. In entrambi i casi, per negazione o per confermazione, ci è utile.

Rimini, 26 agosto 1990. Tutta quella gente in movimento, certa di trovare lì qualcosa. C’erano persone importanti e gli adulti sembravano intendersi su grandi temi, mentre io preferivo indugiare davanti agli stand, così attraenti e ben decorati da giovani sorridenti e disponibili a essere pazienti con me, una bambina di dieci anni. Mi regalavano gadget inutili ma ipnotici e stavo lì imbambolata a raccogliere biglietti a cui davo un valore inestimabile. “Vieni, vieni, sta per cominciare!” Mi stacco a fatica dal mondo dei balocchi. Mi tira per la mano desideroso di rendermi partecipe di qualcosa che non mi è chiaro, ma sento la sua emozione, ha gli occhi lucidi, so bene che abbiamo fatto tanta strada solo per quell’incontro.

Migliaia di persone occupano l’enorme padiglione della fiera vecchia. Tra ali di folla, fa il suo ingresso un uomo, sembra uno stampo umano estratto da un unico blocco, senza ambiguità o rattoppi, cammina spedito, è semplice e ha i baffi. Si toglie la giacca e la cravatta, ora è a suo agio. È proprio uno del popolo, ha quell’aria là da Peppone di Don Camillo. “Shh, ascolta!”.

“Sono venuto da voi dalla Polonia, da un Paese per molti lontano, dalla Polonia che da secoli sta lottando per la propria indipendenza. È stata una lotta difficile. Abbiamo avuto di fronte dei sistemi totalitari disumani che volevano staccare la Polonia e gli altri paesi dell’Europa centro-orientale dall’ambito culturale europeo. Dapprima c’è stato il nazismo, che ha portato insieme alla Seconda guerra mondiale e allo sterminio di milioni di miei connazionali; poi, grazie alle baionette dell’armata rossa, ha dominato da noi lo stalinismo, non meno terribile. E di nuovo abbiamo avuto abbrutimento, sfruttamento e sterminio. Questi due totalitarismi hanno portato per gli uni il fuoco dei forni crematori, per gli altri il freddo micidiale della Siberia. Il nazismo voleva distruggere i nostri corpi, allo stalinismo non sono bastati i nostri corpi: voleva le nostre anime.

Era cominciato un esperimento senza precedenti. Su scala nazionale, si voleva il capovolgimento della coscienza, della cultura, della tradizione. Si volevano tagliare le radici della storia della nazione e dello Stato. In una sola generazione, si voleva dare a essi una forma totalmente nuova. Il nostro rifiuto della schiavitù, la nostra lotta per sollevarci dall’oppressione di questo sistema disumano, sono testimoniati dalle croci di coloro che hanno dato la vita nella lotta per il pane e per la libertà […]. Queste croci, benché così tragiche e inutili, hanno reso più profonda la nostra convinzione che avremmo potuto vincere la violenza distruttiva solo in modo pacifico. Abbiamo raccolto questa grande sfida del mondo contemporaneo.

Dieci anni fa in agosto, nei cantieri di Danzica, cominciò uno sciopero storico, che è divenuto l’inizio della fine della vecchia epoca. Se ne andava un sistema che non stava più al passo con lo sviluppo della civiltà. Tutto il mondo ci guardava e tratteneva il respiro. Il nostro sciopero, in caso di vittoria, significava una rivoluzione e non inferiore alle precedenti, però senza spargimento di sangue. Vennero mostrate allora le foto e furono proiettate le immagini del cancello n. 2 ornato di fiori. Era il cuore del cantiere, con l’immagine della Madonna e con il ritratto del Santo Padre Giovanni Paolo II. Vennero descritte le nostre liturgie all’interno del cantiere, vennero riportate le nostre preghiere, e migliaia di immagini delle nostre confessioni sul selciato della fabbrica.

Il mondo si stupì di questa rivoluzione fatta in ginocchio, ma per noi era la naturale memoria del nostro grande legame con la Chiesa, con la sua dottrina sociale. Infatti, nella storia della Polonia era sempre accaduto che, nei momenti neri per la nazione, la Chiesa fosse insieme a noi. In essa trovavamo rifugio e forza per lo spirito. E così fu dieci anni fa, quando le sorti dello sciopero e di noi stessi erano molto incerte. Infatti, il peso di quella lotta era così grande che senza la fede non saremmo stati in grado di sopportarlo.

Abbiamo vinto. Però bisognava riempire il vuoto lasciato da un sistema disumano. Un compito difficile e che fino ad oggi nessuno si è assunto. Abbiamo cercato le nostre radici, i nostri ideali che derivavano dalla tradizione europea, dalla sua natura multinazionale, dall’esperienza dell’incontro del cristianesimo con le altre religioni. La Polonia di prima della guerra, all’interno dei suoi confini, aveva avuto anche questo tipo di esperienze […]. Nel 1980 questa espansione è stata definitivamente battuta e abbiamo accettato una sfida che abbiamo chiamato Solidarnosc. Essa doveva liberarci dai residui del XIX secolo, dalle divisioni politiche, doveva mostrare la vera dignità dei lavoratori, doveva dare speranza a tutta la nazione e doveva mostrare al mondo una nuova via, originale, per risolvere anche i più gravi conflitti sociali. Attraverso Solidarnosc ci siamo nuovamente inseriti in Europa, in questa Europa così eterogenea, ma che in fondo ha le stesse origini cristiane della Polonia […].

Le nostre esperienze sono un esempio anche per altri che si stanno liberando dai sistemi totalitari. Vogliamo aggiungere alla comune casa europea questa parte d’Europa che è in rovina, ma che è molto importante. L’Europa è una e quindi comprende anche la propria parte orientale. L’Europa è a una svolta storica e quindi anche adesso bisogna raccogliere una sfida perché i valori cristiani che da secoli danno forma a questo continente non cadano. Abbiamo bisogno di capacità di convivenza, abbiamo bisogno di accettare l’eterogeneità, e non abbiano invece bisogno di lotte all’ultimo sangue tra sistemi fanatici, ideologie e religioni.

Anche la convivenza fa parte del patrimonio civile dell’Europa. E anche se la storia dell’ultimo decennio è già dietro di noi, essa è entrata per sempre nella coscienza dei polacchi, è entrata nella coscienza dell’Europa e Solidarnosc è stata iscritta nella sua eredità culturale e politica. È un capitolo chiuso, ma non è un capitolo che si può riporre in uno scaffale della storia o mettere in un deposito di oggetti usati, è un capitolo che vive perché vive la nazione che ricorda. Infatti le nazioni che perdono la memoria perdono la vita.

[…] Alla fine, voglio aggiungere che l’Europa dell’Est, gli stati post-comunisti, stanno cercando nuove strade. Vogliamo che tutti i valori che hanno sostenuto l’Europa possano svilupparsi in modo pluralista, e vogliamo ricreare di nuovo alcuni valori, i valori cristiani che sono un grande patrimonio, una grande eredità e un grande futuro. Guardiamo di nuovo a questi valori, guardiamo bene quali gravi danni riportiamo quando questi valori vengono messi da parte. Sono profondamente certo che potremo svilupparci in modo dignitoso e reale, solo se non perderemo nulla di questo patrimonio di cui siamo vissuti, di cui viviamo. Dobbiamo cercare e troveremo”. (Estratto dell’intervento di Lech Walesa al Meeting di Rimini 1990)

Mio papà è felice come un bambino, sembra una vittoria sua, nostra.

Fiorenza Cirillo, 8 aprile 2022

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