“Diversity officer”
Nel Regno Unito, per esempio, è in voga ormai da anni la pratica dei “safe spaces”, ovvero spazi concessi ad associazioni universitarie, col potere di escludere opinioni diverse dalle loro, tenendo fisicamente fuori libri, giornali, interlocutori “sgraditi”. Oppure la figura del “diversity officer”, un funzionario che, seguendo lezioni e conversazioni, ha il compito di individuare espressioni offensive e di segnalarle in privato al “colpevole”, prospettandogli il rischio di essere sanzionato se l’episodio dovesse ripetersi.
L’Unione Europea si è travestita da “diversity officer”. Il procedimento, nato per non discriminare, sta creando una religione ancor più intollerante e dogmatica, portando a soppiantare le idee non omologate, “politicamente scorrette”, senza affrontarle col principale mezzo difensivo, capace di distinguere verità e falsità: il dibattito.
Chi si assurge a detentore di verità assolute, dogmi o principi intoccabili sarà il primo ad attivarsi per ritagliare il campo del free speech. Non è un caso che qualsiasi sistema autoritario trovi il proprio fondamento su un monopolio informativo, su una negazione della circolazione delle idee, su un rifiuto a priori di tutto ciò che rientra nell’ombrello della libertà.
Non rischiamo di cadere nello stesso errore. Sarebbe illusorio non pensare che questo tipo di censura non possa ricadere, in futuro, nella vita “reale” di tutti i giorni. Il confine è sottile.
Matteo Milanesi, 25 aprile 2022