L’Europa sull’Ai non faccia errori: meno regole, più investimenti

Gli Stati Uniti investono 70 miliardi sull’Intelligenza artificiale. La Cina 30. E l’Ue invece pensa all’inutile prospettiva etica

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L’Intelligenza Artificiale (IA) è la parola d’ordine del 2024 e, più in generale, del prossimo decennio. Peccato che Europa e Italia rischino di mettersi dalla parte sbagliata della storia. Così come è accaduto negli ultimi 20 anni con la Internet economy, nel Vecchio Continente non ci facciamo mancare nulla in quanto a vis regolatoria. Se, infatti, nel recente passato abbiamo proceduto a suon di multe nei confronti delle Big Tech (che non hanno fatto un plissé a fronte di richieste miliardarie da parte della Ue), siamo ora i primi ad emettere un regolamento sull’IA (AI Act) con l’obiettivo di minimizzare i rischi conseguenti a comportamenti opportunistici.

Per carità, tutto bene ma non sarà certo l’Europa ad arrestare la corsa di una tecnologia dal potenziale trasformativo come l’Intelligenza artificiale. Peraltro, se vogliamo regolamentarne l’uso, è necessaria una governance globale in cui tutte le grandi super potenze vengono chiamate a giocare un ruolo attivo e una condivisione di responsabilità in fase attuativa. Dobbiamo evitare, in particolare, che un’Europa molto attenta ai diritti si faccia soverchiare, da un lato, dagli Stati Uniti che mettono al centro sempre e comunque il mercato o, dall’altro, dalla Cina che, con la sua pianificazione centralizzata, sta concentrando risorse molto significative sull’IA. Ad oggi, secondo lo Stanford AI Index l’Europa tutta investe annualmente meno di 10 miliardi nell’IA quando Usa e Cina hanno allocato rispettivamente 70 e oltre 30 miliardi all’anno.

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Il vero tema di cui dovremmo preoccuparci è invece che gli investimenti in ricerca e sviluppo sulle tecnologie digitali sono in Europa un quinto di quelli americani e meno delle metà di quelli cinesi. Il vero tema per l’Europa è quindi quello di evitare di infilarsi in una prospettiva di retroguardia dove si cerca di frenare una tecnologia quando questa verrà cavalcata in altre aree geopolitiche, che a quel punto potrebbero diventare egemoni dal punto di vista tecnologico ed economico.

Le difficoltà dell’Europa sul fronte tecnologico dipendono peraltro anche da altri fattori, caratteristici del Vecchio Continente. Intendo fare riferimento all’elevata frammentazione dei mercati nazionali, la difficoltà di sviluppare progetti realmente scalabili e una cultura di fondo che rende magmatico e burocratico qualsiasi cambiamento. Questo significa che, oltre alla sfida dell’IA, l’Europa rischia di perdere la partita anche in settori tradizionali, come quello automobilistico, dove la transizione digitale e ambientale stanno determinano un radicale riassetto delle catene del valore.

L’Europa ha dunque bisogno di una scossa. Necessita di essere pragmatica e di uscire dalla sterile prospettiva etica in cui si è infilata, mettendo al centro il tema della competitività e della consapevolezza che la competizione si gioca con colossi che fanno della massa degli investimenti la cifra delle rispettive politiche di sviluppo. In termini concreti, significa rimettersi a fare politica industriale, concentrare investimenti in priorità chiare dal punto di vista tecnologico e abbandonare quell’atteggiamento che ha portato cinque anni fa, in nome di una norma anti-trust, ad impedire la fusione tra Alstom e Siemens nel sistema dei trasporti.

Giuliano Noci, prorettore del Politecnico di Milano

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