Friedman smonta la frottola del liberismo «nemico dei poveri»
Era ovvio che prima o poi dovesse accadere. Insomma non si può trascurare Milton Friedman. Abbiamo scelto Liberi di Scegliere, scritto con la moglie Rose. Si tratta di una trasposizione (in realtà è decisamente di più) di una serie di dieci puntate tv andate in onda nel 1980 su Pbs. L’edizione che ho per le mani è quella dell’Ibl, ma da qualche parte mi ricordo una bella vecchia edizione con copertina rosa. Il libro che ho per le mani è introdotto, molto svogliatamente, da cinque paginette di Francesco Giavazzi. Saltatele.
Gustosa invece la presentazione fatta nel 1994 da Sergio Ricossa. Che così ci racconta il senso ultimo del libro: «Contro il pregiudizio che il liberismo sia una dottrina simpatica ai ricchi e pericolosa per i meno abbienti, Milton e Rose hanno perorato in favore di un’economia giusta e virtuosa, la stessa che non piace ai monopolisti e alle sanguisughe sociali di ogni genere».
E ancora: «I Friedman offrono ai lettori una coppa con spuma e bollicine, ma anche con la sostanza di uno champagne di marca e di annata». I nostri sono convinti, e lo scrivono nella loro prefazione post crollo del muro di Berlino, che riguardo al socialismo, al collettivismo «l’opinione comune potrà essere cambiata, ma le pratiche comuni non lo hanno fatto».
Qualcuno si sentirebbe di contraddirli anche oggi? Tutti liberali, a parole. La gran parte protezionisti nei fatti. Prendete il tema dell’uguaglianza. Il mondo è pazzo di Piketty e del suo Capitale. Si contesta, e con una certa efficacia, la conclusione del volume: sono aumentatele diseguaglianze poiché la rendita superala crescita del Pil. Ma non si contesta il principio: la disuguaglianza dei risultati non è di per sé negativa.
In Liberi di scegliere, i Friedman ce lo spiegano nel quinto capitolo, titolato Creati uguali. Si ripercorre la storia dei padri fondatori degli Stati uniti, di Jefferson e del senso ultimo del principio di uguaglianza di opportunità e non già di risultato. Scrivono: «Il punto chiave non è solo che la pratica dell’uguaglianza dei risultati si scosta dalla realtà.
Il punto chiave sta piuttosto che vi è una contraddizione fondamentale tra l’ideale delle parti eque o del precedente ad ognuno secondo i suoi bisogni e l’ideale di libertà personale». Insomma non solo una società libera funziona e ha risultati migliori di una società (fintamente) uguale, ma vi è un diritto alla libertà che deve essere sovraordinato.
Nicola Porro Il Giornale, 19 aprile 2015