Molti lettori in queste ultime settimane mi chiedono, garbatamente, per quale partito o movimento voterò. Confesso che per la prima volta nella vita, il 26 maggio non voterò, non per scelta, ma per motivi logistici di tipo strettamente personale. In ogni caso, ho un tale rispetto per il voto (per me solo il suffragio universale ci rende civili, tutto il resto sono furbate fascistoidi che portano dritti alla dittatura) che, persino in famiglia non ci diciamo, immagino per non interferire nelle reciproche sfere personali, per chi intendiamo votare. Quindi mi spiace non poter soddisfare questa richiesta.
Fin dal primo giorno che, in punta di piedi, sono entrato nel magico mondo dei social (per ora solo Twitter), seppur rifiutando qualsiasi dibattito (domina una volgarità tecno-colta-salottiera che rifiuto), ho sempre dichiarato di vivere, culturalmente, negli “interstizi” del sistema in essere (non lo condivido ma democraticamente lo accetto), quindi fuori da ogni schema, e senza alcuna appartenenza. Come parvenu del giornalismo scrivo per piacere personale, per farmi apprezzare (spero) dai miei nipotini, mi limito a sognare lettori che vogliano informarsi, non certo seguire le mie idee (da apòta), o peggio rafforzare i loro pregiudizi.
D’altra parte, un apòta segue criteri di voto non convenzionali. Per me, anche concettualmente (immagino lo sia per tutti i non ideologizzati) il voto alle elezioni politiche ha un significato molto alto, di posizionamento culturale ben preciso, quello alle elezioni europee un altro (o difesa degli interessi nazionali ovvero disponibilità a cedere poteri a super burocrati), altra cosa il voto alle comunali (qua sono importanti le capacità amministrativa dei candidati e la non ideologizzazione degli stessi).
Nella cultura politica italiana il voto alle europee è sempre stato, almeno per me, incomprensibile, visto il ruolo consegnato dai trattati al Parlamento, un curioso consesso di tipo sostanzialmente formale, addirittura con due sedi (Bruxelles e Strasburgo), quindi con nessuna sede e scarsa credibilità: luogo spesso per falliti o bolliti. Poiché, come giusto, il potere è nei singoli stati, questo è solo teatro, è un rito. Bruxelles non ha nulla di umano, è semplicemente una App. al servizio di un pilota automatico, gestito da alcune Cancellerie leader e da un alto burocrate a Francoforte.
Eppure, curiosamente, a quasi 75 anni dal 25 aprile 1945, l’attuale classe dominante ha deciso di impostare la campagna elettorale 2019 per le europee in modo identitario, spaccando artificialmente, e a loro insindacabile giudizio, l’Italia fra “antifascisti” (lor signori e relativi maggiordomi) e fascisti (il residuale). Questa semplificazione, lo confesso, la trovo ridicola e suicida in termini politici, e pure intellettualmente volgare.
Appartengo a una famiglia operaia, antifascista ormai da quasi un secolo, e non mi ritrovo per nulla in questi antifascisti salottieri che impazzano da circa un anno sui media e nelle piazze. Su fascismo e antifascismo ho due immagini indelebili. In piazza Vittorio Veneto a Torino (dove al civico 9 sono nato), il 14 maggio 1939 c’era una traboccante folla plaudente il Duce (nel frattempo mio nonno era stato arrestato a titolo prudenziale, e liberato solo dopo la partenza di Mussolini per Roma) come altrettanto debordante fu la piazza degli antifascisti il 2 maggio 1945 (arrivo degli americani liberatori). Due fotografie lo certificano. Mi sono sempre chiesto: quanti erano gli stessi nelle due foto?
Mio papà sosteneva che, durante il ventennio, erano antifascisti dichiarati solo operai, braccianti, ebrei, e appena 1% di accademici. Dato questo certificato: su 1251 professori ordinari solo 18 (diciotto) non giurarono fedeltà al Fascismo. Nel 1945 ritroviamo invece tutti i 1251 intellettuali fra gli antifascisti, alcuni diventeranno persino Padri della Patria (leggetevi, grazie al Web, le loro miserabili giustificazioni).
E oggi? Per colpa di quattro poveretti ottusamente “competenti” siamo ripiombati negli anni Trenta. Imbarazzante il caso dell’espulsione dal Salone del Libro di una casa editrice già accreditata. Come dice il magistrato (lui sì liberale nature) Carlo Nordio l’espulsione di Altaforte non è un errore ma un crimine. Ho studiato e mi sono acculturato con il libri editi da Feltrinelli, mai mi sono posto il problema che l’editore fosse un terrorista comunista (classificabile fra i morti sul lavoro), e neppure che i suoi manuali terroristici siano stati trovati nei covi degli assassini rossi (derubricati a compagni che sbagliano). Perché? Ovvio, essendo un antifascista vero mai mi sarebbe passato dalla testa di associare i comportamenti criminali di un editore e i libri che pubblicava. Solo i “nazisti” bruciavano i libri e i “fascio-comunisti” li vietavano, che è poi la stessa cosa che fanno questi loro nipotini 2.0. Il libro, per noi cittadini perbene, figuriamoci per me pure piccolissimo editore, è un oggetto sacro, il tabernacolo di tutte le libertà: chiunque lo tocchi è un fascista, di destra o di sinistra poco importa.
Cari colleghi delle élite datevi una calmata, lasciate che i cittadini votino per chi vogliono loro, senza bombardarli di fake truth. Questo è il principio base della democrazia. Quindi: “Alle urne! Alle urne!” ma sorridendo. Nella vita si vince e si perde, e proprio per questo la vita è bella, perché varia. Vi prego, non inventatevi lo scoppio della Terza Guerra Mondiale per un voto pro o contro l’uno o l’altro. Non vi accorgete che state scivolando nel girone dei venerati maestri?
Riccardo Ruggeri, 18 maggio 2019