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L’ideona della Murgia sui reati dei clandestini

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Poi dice che sono colti, loro. Colti, intelligenti, letterati, studiati, ma buoni. Ma va’ un po’ a sentire questa rissosa, incredibile, insostenibile Michela Murgia, quella della matria, la Forresta Gumpa dell’antifà a testa d’ariete, “fascista è chi il fascista fa”. Murgia, nella comfort zone di 8 e 1/2 (e dove sennò?) ne ha escogitata un’altra: prima ha ipotizzato che lo scannamento del povero don Roberto Malgesini sia colpa degli italiani, cioè del fatidico clima d’odio, cioè, famo a capisse, di Salvini & Meloni (con contorno di Trump), poi ha articolato: «Chi è clandestino commette più reati, quindi bisogna integrare queste persone perché tra italiani e immigrati regolari c’è la stessa percentuale di delinquenza». Un colpo d’ala. Non è facile cogliere la consecutio logica, ma il senso è di una antilogica surrealmente ferrea: basta abolire la clandestinità e tutto va a posto.

La certezza della pena… questa sconosciuta

È il famoso grido di guerra degli antiproibizionisti a tutto tondo: se una faccenda è reato, non si estirpa la faccenda, si estirpa il reato: avanti, Savoia. Ora, ancora una volta, facciamo a capirci: se ne può discutere, come no: è un fatto, per dire, che le politiche restrittive sulle droghe non risolvono granché, ed è un altro fatto che un liberalissimo come Milton Friedman, che non era precisamente uno da centro sociale, avrebbe legalizzato tutte ma proprio tutte le sostanze; con una avvertenza però: io sono libero di accopparmi come voglio e lo Stato non deve metterci becco, però se mentre ci provo finisco per far del male a un altro, pago caro, pago tutto. Senza sconti, piagnistei, mammecoraggio. Ha a che vedere con l’etica della responsabilità. Oggi invece siamo al seguente capolavoro, che lo Stato continua a proibire, però se uno fa una carambola umana, o uno stupro di gruppo, o una qualsiasi nefandezza in quanto tossicomane, lo Stato – capovolgendo clamorosamente il codice penale – lo tratta come una vittima e la dipendenza diventa attenuante, anzi scriminante: di qui, il passaggio dritto da don Mazzi o altro “prete sociale”, “prete di frontiera”, prete di bosco e di brughiera, a far barchette di carta.

D’altra parte, chi, come Roberto Saviano, insiste che legalizzando si taglierebbero gli artigli alle mafie, mente sapendo di mentire: per delucidazioni, sulle quali sarebbe troppo lungo soffermarsi qui, rivolgersi a chi è davvero del settore, come forze dell’ordine e magistrati, possibilmente seri, non palamareschi. E poi, non è forse vero che le sostanze ampiamente legali, quali gli alcoolici, mietono tranquillamente più vittime di ogni pozione proibita? Non è forse vero che il gioco d’azzardo, da che fu legalizzato, per far cassa, per le tasse, ha impennato il numero degli addict, oggi nell’ordine delle centinaia di migliaia, tutti sbandati che poi tocca allo stato curare, così che la spesa doppia serenamente l’introito?

La mania della depenalizzazione

Quanto a dire che – senza prender posizione – trattasi di problematiche contorte, spinose, forse insolubili, come le maneggi ti fai male. Ma torniamo a bomba, anzi a Murgia: l’assurdo è nell’assunto: se una cosa, qualsiasi cosa, è deleteria, basta considerarla non più deleteria: e depenalizzarla.  A questa stregua, aboliamo pure il codice penale: omicidi, stupri, ruberie, che ci vuole? Pensiamo positivo, no? Poi soccorrono “le politiche di integrazione”, che sarebbero come l’Araba Fenice, che ci sia ciascun lo dice, cosa sia nessun lo sa. Ah, le politiche di integrazione, che bella invenzione, che cosa stupenda: quello che ha sgozzato il povero prete degli ultimi a Como stava in Italia da circa 30 anni, aveva lavorato, aveva preso moglie, più integrato di così; ma non si è tenuto niente, era violento, propenso a delinquere, ingrato, alla fine ha trucidato il suo benefattore e voleva decapitarlo: che facciamo, Murgia?

Curioso, però: da una parte quelli come le Murgie assumono accenti francescani, più esattamente cattocomunisti, più precisamente da pesci in barile (sardine): il male non esiste, il male è colpa della società, cioè ha una matrice indefinita ma capitalistica, cioè sotto un sano regime realsocialista filerebbe tutto liscio e la gente andrebbe d’amore e d’accordo, di falce e di martello: basta integrare e il gioco è fatto; contemporaneamente, affiora il moralismo contro gli indigeni egoisti, gli italiani cattivi (e qui davvero ce ne vuole!), le integrazioni che non bastano mai, le chiusure, i muri, i patriarcati e tutto l’armamentario. Murgia, presa dal citarsi addosso, non avrà letto l’Ortega y Gasset dei “bambini viziati dalla democrazia”, per dire la perenne tensione a rilanciare, da aspettativa a diritto, da diritto a pretesa, da pretesa a diritto in un circolo apparentemente virtuoso, in effetti una spirale infernale: la coperta è corta, nessun paese può permettersi d’imbarcare ogni anno cento o duecentomila disperati con poca o punta aspirazione a integrarsi davvero: tutta gente senza niente da perdere, che sbarca disposta a tutto, orientata spesso al peggio (non tutti, non tutti…).

Il solito buonismo

Poi ci pensano i buoni di sinistra, ci pensano partiti & sindacati a fomentarli, per instradarli meglio: e subito fioccano le proteste, le rivolte, il furore contro i menu sgraditi, la pretesa indiscussa a tutto, dalla casa al wifi alla mancia quotidiana; anche così un welfare salta per aria, ma per le Murgie questo non conta, è sempre colpa nostra, anche se lei intende “vostra”, di voi sovranisti che fascisti siete perché i fascisti fate. Murgia salta con l’asta, allegramente, sulla problematica eterna del male che c’è, il male in quanto tale, e qui soccorrono Agostino, Leopardi, Camus, Cioran, Gombrowicz, solo per cominciare, ma è roba per letterati veri, non i succedanei da militanza; il male che non è sempre e solo frutto della società avvelenata e ingiusta, delle disuguaglianze, del liberismo, del neocolonialismo, di una integrazione che non basta mai e comunque è reciproca, non basta offrirla, va pure accettata ossia meritata: il male che si compiace di se stesso, che sceglie se stesso o almeno si alimenta delle condizioni, dei presupposti che ha preferito, si vede che Murgia non si è mai trovata a vivere vicino a certi focolai, certi accampamenti o assembramenti, rigorosamente abusivi, di feroce disperazione: di solito basta una settimana, anche meno, per trasformare il più ostinato dei Gandhi in un aspirante Hitler.

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