Mi sto avvicinando al traguardo dei due mesi di lockdown volontario. Osservo divertito le furbate del Governo e dei virologi di regime per convincere i cittadini a vergognarsi di voler passare il Natale con i loro cari o di voler andare a sciare sul versante della montagna sbagliato. Dopo sessant’anni dai mitici trattati ci siamo ridotti a europei à la carte.
All’apparenza non noto nulla di diverso in me rispetto a quando, a mia insaputa, pensavo di vivere in libertà. Dormo poco ma, come dicono i competenti, il mio è un sonno NREM Stadio 4, cioè un sonno ristoratore. L’altra notte ho sognato di essere nell’uliveto di F. in alta Val Nervia. Era estate, mi riposavo sotto uno dei cinque ulivi da me affittati tanti anni fa: producono l’olio di taggiasche per condire, in modo sublime, la mia tavola per un anno intero, mosca olearia permettendo.
Nel sogno ero felice. Come dicono i vecchi liguri, l’ulivo è l’albero della fame, quindi un albero coerente con l’osceno mondo nel quale da un trentennio campo. L’ulivo, dalla notte dei tempi, ti abitua sì alla fame, ma anche al lavoro per poterne uscire, e all’incertezza. Che bello essere agli arresti domiciliari (volontari) e sognare la libertà sotto un albero di ulivo! Ti senti protetto dalla natura e non dipendi dalla castrante tecnologia digitale che da remoto traccia te, la tua vita, i tuoi pensieri.
Devo riconoscere che non ho mai mangiato così bene come in questo 2020 lockdown-dipendente. Ho messo a punto il menu Covid:
1. È tassativamente escluso il cibo globalizzato e amazonizzato, quello che non marcisce mai, come la plastica.
2. Solo verdure della contadina B, il pesce locale del pescatore G, il minestrone di C. cotto in pentole di terracotta. Loro stessi, non un rider, mi lasciano il cibo davanti alla porta.
Non penso mai alla salute (la mia), fingo di essere immortale, lo so, alla mia età è una furbata, spero che Dio non se ne accorga. Per fortuna, ho giornate strapiene, tutte concentrate sulle oscenità del presente e sulla speranza di un grande futuro. L’importante, come dicevano i romani antichi, è avere un nemico che ti stimoli a essere libero, osservando come vive lui. E io l’ho.
Passo un po’ di tempo su Twitter, ma mi annoio sempre più. Mi ero iscritto per imparare dove andava il mondo dei colti e per osservare i contorcimenti delle élite di fronte alla realtà. I miei amici interessati all’economia, tanto pugnaci fino al “Virus”, mi sembrano stanchi, sfiduciati. Molti dei loro follower li hanno abbandonati per i virologi di regime. Le loro formule un tempo impeccabili non godono più di buona stampa. I virologi, culturalmente sessantottini di ritorno, parlano continuamente di virus e di morte, così confondono teorie economiche con virus e vaccini, i follower si eccitano senza capire, credono alla fola che i debiti fatti pro virus non si restituiscano. E che si muoia solo di Covid.
Ho una grande preoccupazione: con questa strategia di “chiudi-apri” delle scuole i miei nipoti, tutti rigorosamente Gen Z, saranno mica destinati a diventare dei semianalfabeti politicamente corretti? Quindi entreranno mica nella costituenda “Generazione Covid”? Tante figurine Panini che si agitano, però ignoranti perché, come dice Luca Ricolfi “non hanno studiato al momento giusto della vita e il danno sarà irreversibile”?
Oggi mi aggrappo a una frase di Fernando Pessoa “Non voglio più vedere questi volti, queste abitudini, questi giorni. Voglio riposarmi, da estraneo …”. Lo confesso, questi al governo, in perenni riunioni senza mai uno straccio di decisioni operative, mi sembrano dei morti di sonno. Che fare? È sera, vado sul balcone a guardare le stelle.
Riccardo Ruggeri, 30 novembre 2020