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L’incubo dell’ennesima patrimoniale

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“Qualunque imbecille può inventare e imporre tasse. L’abilità consiste nel ridurre le spese, dando nondimeno servizi efficienti, corrispondenti all’importo delle tasse, e fissare le tasse in modo che non ostacolino la produzione e il commercio o per lo meno che lo danneggino il meno possibile”.

Questa celebre frase dell’economista Maffeo Pantaleoni, risalente al 1924, torna alla mente ogniqualvolta il politico di turno torna ad evocare (e spesso ad invocare) la mitica “patrimoniale”, quasi sempre presentata come la panacea di tutti i mali. Di solito è accompagnata dalla precisazione “sulle grandi ricchezze”: serve a tranquillizzare il cittadino medio, a fargli credere che non verrebbe colpito e – possibilmente – anche a creare consenso sulla brillante proposta. Per stare sul sicuro, poi, è frequente l’inserimento di un riferimento alla “solidarietà” (contributo di solidarietà, patto di solidarietà ecc.): fa “buono” e aiuta ad ampliare la condivisione.

Quel che generalmente manca, invece, è un aggettivo che dovrebbe precedere la parola patrimoniale, vale a dire “ulteriore”. Eh sì, perché la patrimoniale in Italia c’è già, sotto varie forme. Solo sugli immobili – a titolo di Imu – il carico ammonta a 22 miliardi di euro l’anno (dalla manovra Monti ad oggi i miliardi sono 183), ma il conto sale a 32 se si aggiunge la Tari, quella tassa sui rifiuti teoricamente collegata al servizio erogato ma sostanzialmente richiesta sulla base di parametri standard relativi all’immobile.

Non c’è niente da fare, i riflessi sono sempre gli stessi. Anche di fronte a un evento enorme, unico e imprevedibile come una pandemia, la soluzione è una sola: più tasse.

Gli stessi provvedimenti del Governo finalizzati a reagire alle conseguenze del Coronavirus e al blocco delle attività economiche si guardano bene dallo sposare l’approccio che servirebbe in una situazione come questa. Sul fronte fiscale, in particolare, non si va oltre qualche sospensione d’imposta, mentre occorrerebbe liberare dall’ansia dei versamenti il maggior numero possibile di soggetti e per un tempo non troppo limitato. Il tutto, non solo e non necessariamente appellandosi sempre “all’Europa” e sempre ipotizzando nuovo debito, ma anche cominciando ad almeno programmare, realmente, ciò che viene promesso da anni: una riduzione della spesa pubblica non essenziale, che in Italia ha dimensioni rilevanti e mai compiutamente esplorate, nonostante i vari Commissari ingaggiati dai diversi Governi.

Il rischio, altrimenti, è favorire soluzioni facili, che utilizzano il vecchio e collaudato schema del fare i generosi con i soldi degli altri. La proprietà immobiliare ne è vittima di frequente e questa fase non fa eccezione, come nel caso del blocco delle esecuzioni di rilascio (gli sfratti, per capirsi) di tutti gli immobili abitativi e non abitativi e sia per morosità che per finita locazione. Il decreto “Cura Italia” l’ha disposta sino al 30 giugno, ma un emendamento di maggioranza ne chiede l’estensione addirittura sino alla fine dell’anno.

Il “ragionamento” è il seguente: alcuni inquilini hanno difficoltà a pagare l’affitto? Che problema c’è? Impediamo ai proprietari di tornare in possesso del loro immobile e tutto è risolto. Senza naturalmente preoccuparsi dell’altra parte di quei contratti di locazione, le tante persone che con il canone proveniente da un appartamento o da un locale commerciale ricavano le risorse per mantenere la propria famiglia.

In realtà, i problemi dell’affitto – nel settore abitativo così come in quello commerciale – non si risolvono scaricando i problemi degli inquilini sui proprietari, ma favorendo il salvataggio dei rapporti in essere, a beneficio di tutti.

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