Un giorno il mio parrucchiere mi chiede: “Non capisco come mai se l’inflazione scende, i prezzi non scendono; e poi non capisco perché se l’inflazione è al 5%, io vado al mercato e trovo le zucchine più care del 20%!”. Ottime domande, a cui andrebbero date delle risposte cercando di tradurre le informazioni più o meno accurate che girano sull’argomento. Nel suo poderoso “Dizionario di Economia (Utet – 1998)”, Sergio Ricossa dedica alla sola voce “inflazione” ben otto pagine. Di cose da dire ce ne sarebbero.
Accontentiamoci di dire al nostro parrucchiere che l’inflazione è un indice che misura una crescita, per cui se diminuisce ma rimane positivo vorrà dire che i prezzi non diminuiscono, ma aumentano di meno. Per calcolare questo indice, inoltre, va considerato un paniere di beni diversi che fatalmente avranno andamenti di prezzo diversi, i quali influiranno di conseguenza sull’andamento medio dell’indice: “Si tratta dunque di calcolare un numero indice del livello generale dei prezzi assoluti e di accertare che esso oscilli più o meno intorno ad una media stabile. Perché se invece tale numero indice sale nel lungo periodo, il sistema dei prezzi presenta un carattere patologico, che si dice inflazione; mentre se all’opposto scende nel lungo periodo, il carattere patologico si dice deflazione. Il tasso di inflazione o di deflazione non è altro che il tasso di variazione del numero indice” [Ibid].
Stabilito che l’inflazione si calcola con uno o più indici medi, resta da considerare quali siano i fattori che la influenzano. In linea generale più è alta la domanda dei beni disponibili e più i prezzi di questi tendono a salire. Il livello di domanda dipende da molti fattori quali la quantità di moneta in circolazione (da cui dipendono le capacità di spesa privata e pubblica) e la propensione al consumo o al risparmio. Va considerata inoltre l’influenza di fattori esterni come nel caso dell’inflazione “importata”, cioè generata dalla necessità di un paese di importare, ad esempio, materie prime o fonti energetiche il cui prezzo potrebbe variare e influenzare di conseguenza i prezzi interni.
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I provvedimenti per cercare di intervenire sul sistema economico, influenzando anche i livelli di inflazione, passano attraverso manovre di politica monetaria (aumento o riduzione della quantità di moneta in circolazione attraverso la gestione delle emissioni e il controllo dei tassi di interesse), di politica fiscale (attraverso l’aumento, la riduzione o la redistribuzione della spesa pubblica in relazione all’andamento della spesa privata), oppure da una combinazione delle due politiche.
Con il sopraggiungere delle teorie keynesiane la tendenza è stata sempre più di spostarsi verso manovre di tipo fiscale, prediligendo un ruolo crescente della spesa pubblica, e spesso non considerando correttamente la sua interazione con quella privata e con le politiche monetarie: “I keynesiani inciteranno dunque a ridistribuire i redditi in senso più egualitario per ridurre i risparmi dei più abbienti e allargare i consumi dei meno abbienti, ma meglio ancora era che i governanti, la cui propensione alla spesa supera sicuramente quella privata, avessero la parte del leone. Una grande spesa ‘sociale’ ben pianificata poteva razionalizzare l’economia, togliere i difetti capitalistici. Purtroppo, però, era come dar benzina agli incendiari. La spesa pubblica fin dal Cinquecento tendeva a dilatarsi più della produzione nazionale, allora per far fronte alle esigenze del nascente stato assoluto. La democrazia parlamentare, spuntata poi per controllare i sovrani spenderecci, aveva finito col sostituirli nella moltiplicazione dei compiti statali e degli esborsi fin troppo facili. E i suggerimenti politici keynesiani, senza volerlo(?), contribuirono a spingere lungo questa china scivolosa, rendendola più che mai una china inflazionistica” (Sergio Ricossa, Impariamo l’economia – BUR 1994).
Nei periodi di crisi si ricorre alla spesa pubblica “perché c’è la crisi”, mentre nei periodi migliori si ricorre alla spesa pubblica per non incorrere nella impopolarità politica. Il risultato è che non è mai il momento di risanare (riducendo e spendendo in modo più efficiente) la finanza pubblica ma, anzi, è sempre il momento per essere creativi con un nuovo bonus “gratuito” che destabilizzi qualche settore economico, crei inflazione e speculazione gonfiando i prezzi a dismisura, e aumenti la spesa pubblica: tanto “paga lo Stato”!
Fabrizio Bonali, 9 dicembre 2023
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