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L’insopportabile fondamentalismo dell’Anpi

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Una delle più nobili figure della cultura italiana del ‘900, il democratico e marxista Rodolfo Mondolfo, ne La libertà della scuola (in Libertà della scuola, esame di stato e problemi di scuola e di cultura, Ed. Cappelli 1922), scriveva: «io non ho mai ammesso nella mia at­tività di insegnante, in materia (la filosofia), quant’altra mai campo di contrasti e fertile di dogmatismi e intolleranze, di esercitare alcuna coercizione e compressione sullo spirito dei discepoli. Siano essi seguaci di indirizzi affini o antitetici a quello dell’insegnante, ho sempre creduto che questi possa e debba chieder loro una cosa sola: la consapevolezza del pro­prio orientamento, delle premesse e delle conseguenze; la netta coscienza, insomma, e, quindi la piena responsabilità mentale del proprio pensiero. Il principio di libertà questo appunto esige: l’educazione alla responsabilità, nel pensiero non meno che nell’azione. Ma questa educazione, dal suo canto, esige il rispetto all’in­dipendenza ed all’autonomia». Credo che raramente si sia reso un omaggio più convinto alla “pedagogia liberale”.

 

Pensando alle parole di Mondolfo, ci si chiede che senso abbia il Protocollo d’intesa tra il MIUR e l’Anpi rinnovato lo scorso anno e fino a tutto il 2019. In base ad esso, l’Anpi s’impegna a “promuovere studi intesi a mettere in rilievo l’importanza della guerra partigiana ai fini del riscatto del Paese dalla servitù tedesca e della libertà”; a “promuovere eventuali iniziative di lavoro, educazione e qualificazione professionale, che si propongano fini di progresso democratico della società”; a “battersi affinché i principi informatori della Guerra di liberazione divengano elementi essenziali nella formazione delle giovani generazioni”; a concorrere alla piena attuazione, nelle leggi e nel costume, della Costituzione italiana, frutto della Guerra di liberazione, in assoluta fedeltà allo spirito che ne ha dettato gli articoli. Altresì l’Anpi è fortemente impegnata ed interessata a valorizzare la storia e le vicende della seconda guerra mondiale, la Resistenza e la Guerra di liberazione, a far conoscere a fondo la Costituzione, e contribuire alla formazione dei giovani non solo sul piano culturale, ma anche sotto il profilo del civismo e dei sentimenti concretamente democratici».

 

L’Anpi, in altre parole, dovrebbe coltivare nei giovani i valori della Resistenza (fare, in parole povere, del catechismo repubblicano) e contribuire alla conoscenza della tormentata storia contemporanea nel nostro paese. Sennonché, al secondo compito, non provvedono già le Università, gli Istituti Storici della Resistenza, le Scuole di formazione istituite dallo Stato? E per quanto riguarda il primo, non ci troviamo di fronte alla cancellazione dei principi ai quali si richiamava Mondolfo quando imponeva il rispetto di quei discenti, «seguaci di indirizzi affini o antitetici a quello dell’insegnante»?

 

L’educatore designato dall’Anpi in cosa si differenzierebbe dal pedagogo inviato nelle scuole dal partito per la celebrazione del sabato fascista? Certo in regime totalitario, la scelta viene dall’alto, in democrazia occorre un accordo tra MIUR e Anpi: la differenza è grande ma in fondo ai due percorsi sta l’indottrinamento, l’imbottitura dei crani come si diceva un tempo, ovvero l’atto di fede in valori che non nascono da quella «educazione alla responsabilità, nel pensiero non meno che nell’azione» che «esige il rispetto all’in­dipendenza ed all’autonomia» di coloro ai quali ci si rivolge.

 

Nessuno vuol limitare la libertà dell’Anpi di vedere nella vulgata antifascistasu cui ironizzava il più grande storico del regime, Renzo De Felice – una sorta di vangelo repubblicano, di tuonare contro la Dichiarazione di Strasburgo che equipara nazismo e comunismo, di denunciare in Matteo Salvini il nuovo fascismo, di gettare l’allarme SOS fascisme!, di denunciare l’esaltazione che si è fatta, alla sua morte, di Giorgio Albertazzi – Un bastardo che ci lascia, «un feroce rastrellatore di partigiani e civili, dal Grappa alla Valcamonica» -, di chiedere pene ancor più severe per l’apologia di fascismo, di intervenire nelle grandi questioni politiche che dividono l’opinione pubblica – dal taglio dei parlamentari al tema dell’accoglienza – quasi esercitasse un magistero morale non dissimile dalla Conferenza episcopale.

 

Quello che non si spiega, invece, è perché l’Anpi eretta in ente morale (fin dall’aprile 1945), continui ancora oggi, in un’epoca in cui i pochi partigiani sopravvissuti hanno doppiato il capo dei novanta, ad essere circondata da un inspiegabile “carisma d’ufficio”. Ente morale, in una democrazia che si rispetti, è l’associazione o l’istituto che si fa depositario di valori realmente comuni (e non tali solo perché iscritti in una Costituzione che pochi hanno letto e in cui tanti di quei pochi non si riconoscono), che intende rimarginare antiche ferite storiche, far sentire i vinti e i vincitori di una guerra civile appartenenti a una stessa comunità politica, come in certi circoli Usa di ex combattenti in cui si trovano unite la bandiera del Vecchio Sud e quella dei vincitori di Gettysburg.

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