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L’intervista “perduta” alla Fallaci – pt. 1

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Il direttore di Libero, Vittorio Feltri, mi aveva avvisato. Oriana Fallaci aveva un carattere difficile. Per il nostro quotidiano, la possibilità di pubblicare un testo a firma dell’autrice de La Rabbia e l’Orgoglio era un’occasione unica. La Rizzoli non era al corrente della faccenda. C’erano problemi di copyright e la Signora non desiderava guastare i rapporti con la sua casa editrice storica. Fu convinta dalla scontentezza verso il Corriere della Sera (col quale comunque continuò a collaborare) e dall’amicizia che la legava a Feltri. La Fallaci considerava Libero un esperimento interessante. I nostri lettori, in crescita costante, la adoravano. Nel marzo 2005, Feltri lanciò una petizione per far nominare la Fallaci senatore a vita. Il successo fu travolgente. A Libero arrivarono decine di migliaia di firme. Il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi preferì Giorgio Napolitano e Sergio Pininfarina. Ma questa è un’altra vicenda. Io ero il giornalista incaricato di raccogliere il testo della scrittrice e di farlo arrivare in edicola, seguendolo in tutte le fasi, dopo che la Fallaci e il direttore avevano concordato il contenuto della nuova avventura editoriale. Per me la Fallaci è stata una voce. Non l’ho mai incontrata. Il lavoro si svolgeva per intero al telefono. La prima chiamata a New York non andò benissimo.

«Pronto, signora Fallaci, sono Alessandro Gnocchi di Libero, come sta?».

«Male, ho il cancro».

La Fallaci era famosa per il suo caratteraccio. Non era un luogo comune. Era davvero ruvida, aggressiva e insoddisfatta. La Rabbia e l’Orgoglio è un grande titolo perché riflette in pieno anche il suo carattere. Presto le infinte sedute telefoniche mi rivelarono le altre qualità della Fallaci. Era guidata da una passione feroce, non avrebbe mai concesso a sé stessa di arrendersi al dolore fisico o alla stanchezza morale. Dai collaboratori pretendeva una dedizione pari alla sua. Dopo aver composto il testo, iniziava a ritoccarlo. Lei mi dettava le correzioni. Io ricomponevo il testo, spesso molto ampio. Lo spedivo via fax a New York non prima di aver ritagliato e modificato le pagine in modo che non sembrasse ciò che era: una bozza di Libero. L’operazione andava avanti per giorni, tutto il giorno (e tenuto conto del fuso orario anche per un certo numero di ore notturne). La sala delle riunioni di Libero diventava il mio bunker, veniva allestita una postazione ad hoc, separata dal resto della redazione. In effetti era come entrare in una dimensione parallela.

Quando il testo si era cristallizzato, la Fallaci rileggeva a voce alta nella cornetta. Se era soddisfatta, si limitava a qualche ulteriore correzione fino all’ultimo momento disponibile prima di andare in stampa. Altrimenti si ricominciava da capo. Come ultima cosa, compilavamo insieme i sommari e sceglievamo le foto una ad una. Non c’era dettaglio che non meritasse la sua completa attenzione. La titolazione principale naturalmente spettava a Feltri. Cosa devo aggiungere? Niente. Posso solo ringraziare di avere avuto l’opportunità di conoscere una persona fuori dall’ordinario e di essere stato ammesso nella sua “officina”. Non racconterò storie false, tipo quanto ero amico della Fallaci. In questi anni l’hanno fatto in troppi senza provare alcuna vergogna. Non siamo stati amici. Il nostro era un rapporto di lavoro. Le nostre chiacchierate, che pure ci sono state, vertevano quasi esclusivamente su articoli e libri. Posso testimoniare che gli autori liberali (Tocqueville e Croce in particolare) citati nella Trilogia erano anche quelli ricorrenti nelle sue parole. Mi rammarico di non essere stato in confidenza con la Fallaci ma fino a un certo punto. Per la Signora, scrivere forse non era tutto ma senz’altro in quegli anni era molto, moltissimo. Vederla scrivere, con quella tenacia e con quell’amore, mi ha insegnato ad avere rispetto del mio lavoro e di me stesso.

Un’ultima cosa, la più importante. I testi usciti su Libero spesso si presentano come estratti dai libri della Trilogia per evitare guai con la Rizzoli. In sostanza lo sono. Ma sono fortemente rielaborati a seconda delle esigenze dettate dalla cronaca. Il filologo qui troverà pane per i suoi denti, tra varianti e passaggi nuovi di zecca. Un caso a parte è l’intervista che propongo di seguito. Qualcuno ha detto che si tratta di un inedito camuffato da colloquio. Non è del tutto vero. Lo speciale della televisione polacca esiste così come l’annunciata trascrizione su rivista. Ma le risposte della Fallaci, come è facile capire dalla loro lunghezza, nella versione italiana uscita su Libero sono infinitamente più articolate e scritte ex novo. Ripubblico tutto come uscì all’epoca, ringraziando Libero e il suo attuale direttore Maurizio Belpietro.

* * *

Da Libero, domenica 14 agosto 2005

Pubblichiamo l’intervista concessa da Oriana Fallaci a Padre Andrzej Majewski, caporedattore della televisione pubblica polacca (Telewizja Polska). Prendendo spunto dai recenti attentati kamikaze di Londra, Padre Andrzej ha chiesto alla scrittrice italiana di esporre la sua opinione sull’immigrazione islamica in Europa, sul ruolo di Papa Benedetto XVI, sulla guerra in Iraq e sul Corano. Il testo, riveduto e convalidato dalla stessa Fallaci, apparirà sul prossimo numero del mensile edito dai gesuiti polacchi Przeglad Powszechny (Rassegna Universale) di Varsavia, rivista di cultura e problemi sociali.

I responsabili degli attacchi terroristici a Londra erano mussulmani nati in Gran Bretagna o cittadini inglesi. Quindi potrebbero essere considerati europei. Crede che per difendere il nostro continente e la civiltà occidentale dovremmo esiliare tutti i mussulmani dell’Europa?

Per incominciare, non sono affatto europei. Non possono essere considerati europei. O non più di quanto noi potremmo essere considerati islamici se vivessimo in Marocco o in Arabia Saudita o in Pakistan beneficiando della residenza o della cittadinanza. La cittadinanza non ha niente a che fare con la nazionalità, e ci vuol altro che un pezzo di carta su cui è scritto cittadino inglese o francese o tedesco o spagnolo o italiano o polacco per renderci inglesi o francesi o tedeschi o spagnoli o italiani o polacchi. Cioè parte integrante di una storia e di una cultura. Secondo me, anche quelli con la cittadinanza sono ospiti e basta. O meglio: invasori privilegiati. Poi una cosa è espellere gli allievi terroristi o gli aspiranti terroristi, i clandestini, i vagabondi che vivono rubando o spacciando droga o, meglio ancora, gli imam che predicando la Guerra Santa incitano i loro fedeli a massacrarci. E una cosa è cacciare indiscriminatamente una intera comunità religiosa. L’esilio è una pena che già nell’Ottocento l’Europa applicava con le molle, e solo per qualche individuo. Ai nostri tempi si applica soltanto per i re e le famiglie reali che hanno perso la partita. In parole diverse, non si addice più alla nostra civiltà. Alla nostra etica, alla nostra cultura. E l’idea di trasformarci paradossalmente da vittime in tiranni, da perseguitati in persecutori, è per me inconcepibile.

Mi fa pensare ai trecentomila ebrei che nel 1492 vennero cacciati dalla Spagna, ai pogrom di cui gli ebrei sono stati vittime nell’intero corso della loro storia. Naturalmente, se volessero andarsene di loro spontanea volontà, non piangerei. Anzi, accenderei un cero alla Madonna. Nel saggio pubblicato giorni fa dal Corriere della Sera, “Il nemico che trattiamo da amico”, addirittura glielo suggerisco. «Se siamo così brutti, così cattivi, così spregevoli e peccaminosi» gli dico, «se ci odiate e ci disprezzate tanto, perché non ve ne tornate a casa vostra?». Il fatto è che se ne guardano bene. Non ci pensano nemmeno. Ed anche se ci pensassero, come attuerebbero una cosa simile? Attraverso un esodo uguale a quello con cui Mosè portò via gli ebrei dall’Egitto e attraversò il Mar Rosso? Sono troppi, ormai. Calcolando solo quelli che stanno nell’Unione Europea, sostengono i dati più recenti, circa venticinque milioni. Calcolando anche quelli che stanno nei Paesi fuori dell’Unione Europea e nell’ex Unione Sovietica, circa sessanta milioni.

Questa è la loro Terra Promessa, mi spiego? Rispetto, tolleranza. Assistenza pubblica, libertà a iosa. Sindacati, prosciutto, il deprecato prosciutto, vino e birra, il deprecato vino e la deprecata birra. Blue jeans, licenza di esercitare in ogni senso prepotenze che qui non vengono né punite né rintuzzate né rimproverate. (Inclusa la licenza di buttare i crocifissi dalle finestre). Protettori cioè collaborazionisti sempre pronti a difenderli sui giornali e a impedirne l’espulsione nei tribunali. Caro padre Andrzej, è troppo tardi ormai per chiedergli di tornare a casa loro. Avremmo dovuto, avreste dovuto, chiederglielo venti anni fa. Cioè quando già dicevo: «Ma non lo capite che questa è un’invasione ben calcolata, che se non li fermiamo subito non ce ne libereremo mai più?». In nome della pietà e del pluriculturalismo, della civiltà e del modernismo, ma in realtà grazie ai cinici accordi euro-arabi di cui parlo nel mio libro La Forza della Ragione, invece, li abbiamo lasciati entrare. Peggio: avendo scoperto che non ci piaceva più fare i proletari, cogliere i pomodori, sgobbare nelle fabbriche, pulire le nostre case e le nostre scarpe, li abbiamo chiamati. «Venite, cari, venite, ché abbiamo tanto bisogno di voi». E loro sono venuti. A centinaia, a migliaia per volta. Uomini robusti e sbarbati, donne incinte, bambini. Sempre seguiti dai genitori, dai nonni, dai fratelli, dalle sorelle, dai cugini, dalle cognate, continuano a venire e pazienza se anziché persone ansiose di rifarsi una vita lavorando ci ritroviamo spesso vagabondi. Venditori ambulanti di inutilità, spacciatori di droga e futuri terroristi. O terroristi già addestrati e da addestrare. Pazienza se fin dal momento in cui sbarcano ci costano un mucchio di soldi. Vitto e alloggio. Scuole e ospedali. Sussidio mensile. Pazienza se ci riempiono di moschee. Pazienza se si impadroniscono di interi quartieri anzi di intere città. Pazienza se invece di mostrare un po’ di gratitudine e un po’ di lealtà pretendono addirittura il voto che in barba alla Costituzione le Giunte di Sinistra gli regalano a loro piacimento. Pazienza se, per proteggere la Libertà, a causa loro dobbiamo rinunciare ad alcune libertà. Pazienza se l’Europa diventa anzi è diventata l’Eurabia.

Caro padre Andrzej, io non so quel che accade in Polonia. Ma nel resto dell’Europa, e per incominciare nel mio Paese, non accade davvero quel che accadde a Vienna oltre tre secoli fa. Cioè quando i seicentomila ottomani di Kara Mustafa misero sotto assedio la capitale considerata l’ultimo baluardo del Cristianesimo, e insieme agli altri europei (Francia esclusa) il polacco Giovanni Sobieski li respinse al grido di «Soldati, combattete per la Vergine di Czestochowa». No, no. Qui accade quello che oltre tremila anni fa accadde a Troia, cioè quando i troiani apriron le porte della città e si portarono in casa il cavallo di Ulisse. Sicché dal ventre del cavallo Ulisse si calò con i suoi commandos e gli Achei distrussero tutto ciò che v’era da distruggere, scannarono tutti i disgraziati che c’erano da scannare, poi appiccarono il fuoco e buonanotte al secchio. Perbacco! Inascoltata e sbeffeggiata come una Cassandra, da anni ripeto fino alla noia il ritornello «Troia brucia, Troia brucia». Ed oggi ogni nostra città, ogni nostro villaggio, brucia davvero. Esiliare? Macché vuole esiliare. Oggi gli esuli siamo noi. Esuli a casa nostra.

Come crede che Papa Benedetto XVI dovrebbe reagire a questa situazione essendo il capo della Chiesa Cattolica Apostolica Romana e il leader d’una religione che predica pace, non-violenza, bontà?

Senta, nel saggio “Il nemico che trattiamo da amico” a un certo punto mi rivolgo direttamente a Ratzinger. Pardon, a Papa Benedetto XVI. (Sa, io lo chiamo sempre Ratzinger e basta. Manco fosse un mio ex professore o addirittura un mio ex compagno di scuola). E mi rivolgo a lui confutando ciò che confutavo a Wojtyla, pardon, a Papa Giovanni Paolo II. Il Dialogo con l’Islam. «Santità» gli dico «Le parla una persona che La ammira molto. Che Le vuole bene, che Le dà ragione su un mucchio di cose. Che a causa di questo viene dileggiata coi nomignoli atea-devota, laica-baciapile, liberal-clericale. Una persona, inoltre, che capisce la politica e le sue necessità. Che comprende i drammi della leadership nonché i suoi compromessi. E che rispetta l’intransigenza della fede. Però il seguente interrogativo glielo devo porre ugualmente: crede davvero che i mussulmani accettino di dialogare coi cristiani, anzi con le altre religioni o con gli atei come me? Crede davvero che possano cambiare, ravvedersi, smetterla di seminar bombe?». E ora aggiungo: il terrorismo islamico non è un fenomeno isolato, un fatto a sé stante. Non è una iniquità che si limita a una minoranza esigua dell’Islam. (Peraltro una minoranza tutt’altro che esigua. Si calcola che l’Europa disponga di ben quarantamila terroristi pronti a scattare. E non dimentichiamo che dietro ogni terrorista c’è una organizzazione precisa, una rete di contatti eccellenti, un oceano di soldi. Ergo, quel numero “quarantamila” va moltiplicato almeno per cinque anzi per dieci. E, stando alla matematica, così facendo s’arriva a duecentomila o quattrocentomila). Il terrorismo islamico è soltanto un volto, un aspetto, della strategia adottata fin dai tempi di Khomeini (anzi fin dai giorni dei cinici accordi euro-arabi) per attuare la globale offensiva chiamata “Revival dell’Islam”.

Risveglio dell’Islam. Un risveglio che ancora una volta mira a cancellare l’Occidente, la sua cultura, i suoi principii, i suoi valori. La sua libertà e la sua democrazia. Il suo Cristianesimo e il suo Laicismo. (Sissignori, anche il laicismo. Forse, soprattutto il laicismo. Ma non l’avete ancora capito che il laicismo non può coabitare con la teocrazia?!?). Un risveglio, insomma, che non si manifesta soltanto attraverso le stragi ma attraverso il secolare espansionismo dell’Islam. Un espansionismo che fino all’assedio di Vienna avveniva con gli eserciti e le flotte dei sultani, i cavalli, i cammelli, le navi dei pirati, e che ora avviene attraverso gli immigrati decisi a imporre la loro religione. La loro prepotenza, la loro prolificità. E tutto ciò sfruttando la nostra inerzia, la nostra debolezza, o la nostra buonafede. Peggio: la nostra paura.

Be’: Papa Ratzinger, pardon, Benedetto XVI, lo sa meglio di me. Basta leggere i suoi libri, conoscere ciò che scrive sull’Europa, capire l’allarme che esprime nei riguardi dell’Europa, per concludere che lo sa meglio di me. Meglio di tutti noi. Il guaio è che si trova in una situazione difficilissima. Forse la più difficile che possa intrappolare un leader del nostro tempo. Difficile da un punto di vista teologico e filosofico. Difficile da un punto di vista politico e umano. Il fatto di stare a capo d’una Chiesa che basa il suo credo sull’amore e sul perdono, anzitutto. Che in termini ecumenici predica «ama-il-prossimo-tuo, quindi-pure-il-nemico-tuo-come te stesso». Poi il fatto di governare un’immensa comunità che, nei riguardi dell’Islam, anche nei suoi ranghi gerarchici è divisa cioè arroccata su opposte posizioni. Pensi alla Caritas che raccatta i clandestini e magari li nasconde. Pensi ai frati Comboniani che con la sciarpa arcobaleno sulla tonaca bianca gli distribuiscono simbolici permessi-di-soggiorno. Pensi ai preti che sull’altare della loro chiesa permettono agli imam di celebrare il matrimonio misto e berciare Allah-akbar, Allah-akbar. (Come è successo, per esempio, a Torino). E infine il fatto d’essere l’immediato successore d’un Papa, Papa Wojtyla, che a parlare di Dialogo è stato il primo. Che con il comunismo e l’Unione Sovietica usava il pugno di ferro ma con l’Islam usava il guanto di velluto. Che gli imam li invitava ad Assisi. Che l’ex terrorista e magnate di terroristi Yasser Arafat lo riceveva in Vaticano. E che contro Bin Laden non tuonava mai in modo diretto. (Padre Andrzej, mi dispiace dirlo a lei che è polacco e che con questa intervista si rivolge ai polacchi: so bene quanto è venerato Wojtyla in Polonia. E non a torto perché Wojtyla era un grand’uomo, un grande leader. Ma, su quel punto, secondo me sbagliava). Be’, Ratzinger amava molto Wojtyla. Per stargli vicino, si sa, rinunciò perfino al desiderio di invecchiare nella sua Baviera e tornare al lavoro che gli piaceva di più cioè l’insegnamento. Inoltre lo sosteneva, lo consigliava. E si può forse pretendere che di punto in bianco imbocchi un’altra strada, sconfessi il sogno del dialogo?

Eppure io ho fiducia in Ratzinger, in Benedetto XVI. È troppo intelligente per non rendersi conto che il Risveglio dell’Islam s’è ingigantito come all’epoca dell’Impero Ottomano, e che col suo fondamentalismo ha assunto i contorni d’un nuovo nazismo. Che dialogare o illudersi di poter dialogare con un nuovo nazismo equivale a commettere lo stesso errore che l’Inghilterra di Chamberlain e la Francia di Daladier commisero nel 1938. Cioè quando, illudendosi di poter trattare con Hitler, Francia e Inghilterra firmarono il Patto di Monaco e un anno dopo si ritrovarono con la Polonia invasa dai nazisti. È un uomo davvero raziocinante, Benedetto XVI. Guardi come affronta, lui, l’irresolubile problema di conciliare la fede con la ragione. Capisce benissimo che nei riguardi dell’Islam il laicismo ha perso il treno! Che i laici a parole ma non a fatti sono mancati all’appuntamento loro offerto dalla Storia. Che soprattutto a Sinistra si sono messi dalla parte del nemico. Un nemico deciso ad estendere la sua ideologia teocratica all’intero pianeta. Altrettanto bene capisce che, mancando all’appuntamento loro offerto dalla Storia, quei laici hanno aperto una voragine. Hanno creato un vuoto da riempire. Non a caso penso che prima o poi, (meglio prima che poi), lui lo riempirà. Il suo volto è buono, il suo sorriso è mite, ma i suoi occhi sono molto fermi. Molto risoluti.

Questo non significa aizzare Crociate, guerre di religione: l’accusa che mi rivolgono gli imbecilli in malafede. Non significa vendersi al Vaticano, tradire il laicismo. (Il mio laicismo, padre Andrzej, è a prova di bomba. Non di convenienza). Non significa insomma mettersi al servizio d’un Papa, invitarlo a sostenere il ruolo di Giovanni Sobieski che ai suoi soldati urla «Combattete per la Vergine di Czestochowa». Non significa chiedergli di indossare l’armatura cara ai suoi predecessori rinascimentali, di sguainare la spada, tagliare la testa di chi la taglia a noi. E tanto meno significa spingere all’orrore dei pogrom. Significa ricordare all’intransigenza della fede che l’autodifesa è una legittima difesa. Non un peccato. Significa sostenere che, quando è necessario, anche un sant’uomo può fare la voce grossa.

Comportarsi come Gesù Cristo che al Tempio perde la pazienza e rovescia le bancarelle dei mercanti, magari gli tira anche un bel pugno sul naso. E per me significa scegliere bene il proprio alleato. Per me atea-cristiana (devota no ma cristiana sì) il Cristianesimo non è soltanto una filosofia di prima qualità, un pensiero al quale ispirarmi, una radice dalla quale non posso e non devo e non voglio prescindere. È anche un alleato. Un compagnon de route. Di conseguenza, lo è pure chi lo interpreta ai massimi livelli. Cioè chi lo rappresenta. Sa, nel mio caso non si tratta di mischiare il sacro con il profano, il diavolo con l’acqua santa. Si tratta di esercitare la razionalità. L’autodifesa che è legittima difesa, e la razionalità.

Infatti la cosa che mi ha dato più conforto negli ultimi tempi è stata l’intervista che l’acutissimo vescovo Rino Fisichella, il Rettore dell’Università Lateranense, dette al Corriere della Sera a proposito del mio sentirmi meno sola dacché leggo Ratzinger e Ratzinger è diventato Benedetto XVI. Intervista che il Corriere pubblicò sotto il commovente titolo: “Ratzinger, Oriana: l’incontro di due pensieri liberi”. Più che un’intervista, una sentenza. Un verdetto. «Non la stupisce» gli chiede subito l’intervistatore «questa concordanza con il Papa da parte di una donna che si definisce atea?». E Fisichella, pardon, il vescovo Fisichella, risponde: «Non mi stupisce. Anzi mi conferma la possibilità, sempre offerta a tutti, d’un vero incontro sulla base della Ragione. La Forza della Ragione è un titolo famoso della Fallaci, ma anche un’espressione che ricorre negli scritti del teologo Ratzinger. Come del resto ricorre nell’Enciclica Fides et Ratio di Giovanni Paolo II». E quando l’intervistatore gli chiede quale sia il segreto di quell’intesa sulla base della Ragione, risponde: «Nel caso della Fallaci e del Papa che si incontrano nel giudizio sulla crisi dell’Europa e dell’Occidente, il segreto sta nella Libertà. Sappiamo quanto la Fallaci tenga alla sua autonomia di giudizio che è forse la qualità che più le ha permesso di fare storia nel giornalismo e nella narrativa. E ugualmente sappiamo quanto il teologo Ratzinger sia sempre stato libero dalle idee ricevute nonché incurante del politically correct». Infine, alla domanda che-dice-sulla-battuta-della-Fallaci: «Se un’atea e un Papa sostengono la medesima cosa, significa che in quella cosa dev’esserci qualcosa di vero», risponde: «Dico che, se si pensa davvero, ci si incontra. Dico che, se si va oltre le diverse forme di relativismo cui siamo abituati, se si superano gli schematismi e i pensieri deboli, si arriva a un’unità profonda. Anche se partiamo da luoghi diversi».

Sacrosante parole a cui non ho da aggiungere una virgola, e su cui tanti dovrebbero riflettere un po’. (Non dico quanto ho riflettuto io sulla geniale raccomandazione che Ratzinger rivolge ai non credenti: “Comportatevi come se Dio esistesse, velut si Deus daretur”… Si stancherebbero troppo. Ma una pensatina, sì.

(1. Segue)