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L’ipocrisia dei magistrati sulla giustizia marcia

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C’è una sorta di ipocrisia diffusa, di non detto o detto fra le righe, nell’atteggiamento delle massime autorità dello Stato nei confronti dell’emergenza giustizia. Un atteggiamento che ricorda un po’ quello delle colf poco professionali che nascondono la polvere sotto il tappeto sperando che, sottraendola agli occhi dei visitatori, questi possano pensare di essere entrati in una casa linda e pulita. Quest’anno siffatto atteggiamento ha avuto la sua apoteosi nell’inaugurazione dell’anno giudiziario, ove sinceramente le frasi di circostanze che si ripetono ogni anno, compreso il richiamo agli eroi integerrimi del passato come Rosario Livatino, sono suonate vuote nel migliore dei casi e mendaci nel peggiore e più probabile.

Prima di tutto perché il caso Palamara ha evidenziato che non è malata una parte della magistratura, ma tutto il sistema; e che pertanto la “rifondazione” non solo non può essere affidate alle sole parole ma deve anche essere accompagnata da una rivoluzione mentale che deve investire tutto l’ordine. Altri modi per essere credibili, non ci sono (“credibilità” è stata la parola più ripetuta quest’anno nelle prolusioni). Quello che deve cambiare necessariamente, detto altrimenti, è il modo di concepire la professione, il rapporto coi cittadini, quello con il potere e con la politica. Non è più tollerabile, soprattutto, l’autoreferenzialità corporativa, che mette di fatto i magistrati al servizio non della società ma di loro stessi, cioè della carriera e del potere.

In seconda istanza, tutto suonava ipocrita perché quella rifondazione su basi garantiste e liberali, non inquisitoria, dell’ordinamento giuridico, che è ciò che con tutta evidenza ci vorrebbe, contrasta con lo spirito che ha animato le decisioni politiche sulla giustizia dell’ultimo esecutivo e della maggioranza che l’ha sorretto. Non dimentichiamo che alla crisi di governo si è arrivati perché il presidente del Consiglio non ha avuto il coraggio di affrontare l’aula a cui avrebbe dovuto sottoporre una relazione del suo guardasigilli a difesa di una riforma della giustizia di chiaro impianto illiberale.

Una riforma che, per il suo carattere punitivo e inquisitorio, e soprattutto per l’abolizione della prescrizione, ci fa uscire automaticamente dal novero dei cosiddetti “Stati di diritto” e soprattutto sconfessa secoli di civiltà giuridica occidentale. Si può mai combattere un sistema marcio aumentando ancora di più il potere e la discrezionalità della magistratura? Ovvero, si può combattere la corruzione della società incentivando la corruzione in casa di chi dovrebbe individuarla e contrastarla?

Senza pari è poi l’ipocrisia di chi, pur sapendo queste cose, pur di non contraddire l’ala giustizialista grillino-travagliana e affrontare il toro per le corna, discetta ancora oggi di una fantomatica velocizzazione dei procedimenti che sarebbe messa in atto e che tutelerebbe, per questa via, quel principio capitale ormai sempre più fantasma che è la “certezza del diritto”. In sostanza, la legge, nata a difesa dei cittadini, è ciò da cui oggi questi ultimi devono in Italia spesso difendersi. C’è poco da celebrare perciò. Toghe ed ermellini, e gli specchi dorati, sembravano veramente fuori luogo venerdì scorso al Palazzo di Cassazione.

Corrado Ocone, 30 gennaio 2021