A Napoli, in Campania, tutto è sempre sul punto di finire in farsa. E chiunque si atteggi a guappo, nella città che crea miti e rapidamente li distrugge, può sempre rischiare, agli occhi del popolo, di diventarlo presto “di cartone”. Per carità, Vincenzo De Luca non è ancora arrivato a tanto, anzi è fresco riconfermato alla guida della Regione, quasi a furor di popolo. Però, è indubbio che tutta la retorica su cui aveva costruito la sua campagna elettorale, di indomito padre-padrone che con il suo decisionismo severo aveva tenuto lontano il virus da Partenope e dintorni, è seriamente messa a repentaglio sia dall’aumento esponenziale dei casi nelle ultime settimane sia dalla sua risposta ad esso.
Il tutto a fronte di una struttura ospedaliera, che avrà pure le tanto da lui decantate “isole di eccellenza”, ma è nella sostanza da Paese (con rispetto parlando) del Terzo Mondo. Don Vincenzo, con modi e parole sempre “sopra le righe”, ha giocato molto, durante la pandemia, sul registro, fra il vittimistico e il velleitario, vincente da quelle parti, del “noi” (cioè lui) che siamo diversi da “loro”, cioè da tutti coloro (governo, politici, altri governatori) abbiano la sventura di vivere o operare al di sopra della linea del Garigliano. Fossero pure i dirigenti del suo partito, che egli, ricambiato, tratta con aria di sufficienza se non di disprezzo.
Ora, però il nostro rischia di soccombere lunga la linea della rivalità Salerno-Napoli, geograficamente; e lungo quella che separa l’8 settembre dal 25 aprile, storicamente. Impaurito dalla virulenza del virus a Napoli, De Luca ha deciso infatti di rimanersene nella sua Salerno e da lì procedere in smart working con le sue ordinanze e proclami via social. Al contempo, però, ha vietato agli altri corregionali di muoversi tra una provincia e l’altra, salvo autocertificazione che comprovi i giustificati motivi dello spostamento. Siamo cioè alla scialuppa lasciata in balia delle onde dal comandante, o, se preferite, appunto, alla fuga del Re in piena guerra.