Ha fatto bene Luigi Mascheroni, pochi giorni fa su queste colonne, a descrivere Mario Cervi, il nostro direttore, per quel suo tratto di signore d’altri tempi. Che era la sua caratteristica fondamentale. Oggi, se mi permettete, vorrei descriverlo sotto un altro punto di vista: quello che ho visto e conosciuto scrivendoci insieme un libro. Quella di oggi si può dunque definire una recensione autobiografica, ma non fatevi ingannare, è solo una scusa per raccontarvi un Cervi visto da dentro.
Fu proprio il direttore a insistere molto che scrivessi il libro con lui e che lo firmassi con pari dignità: la cosa era ovviamente assurda sia per la sua storia, sia per la sua capacità di scrittura, che era semplicemente magnifica. Ma soprattutto perché l’idea del libro e del suo contenuto era semplicemente e solamente di Cervi. Non era pigro, come tanti giornalisti sono, era solo generoso, come pochi giornalisti sono. In tempi non sospetti Cervi voleva mettere in evidenza più da un punto vista etico che economico la spregiudicatezza di un personale politico che utilizzava i quattrini degli italiani, e dunque in ultima analisi delle nostre tasse, per sprechi e privilegi che non avevano più alcun senso.
Quando chiese al sottoscritto di dargli una mano per trovare i numeri e approfondire temi, era del tutto chiaro come l’intento di Mario non fosse quello di cancellare una classe politica definendola indistintamente ladra, ma fosse quello di rivendicare uno Stato dimagrito, in cui i politici riprendessero il loro ruolo e la loro dignità. Nacque così Sprecopoli, in cui ci dividemmo equamente la scrittura dei capitoli, con quello sul Quirinale affidato proprio a Mario, che tanto ci teneva e che trattò con il garbo che tutti gli riconosciamo. Eppure Sprecopoli per Cervi era un titolo che non funzionava, dava un’idea troppo dozzinale di ciò che intendevamo. Mario aveva proposto il titolo chic e sofisticato «Lo scialo». Non intendevamo infatti scimmiottare l’epoca di Mani Pulite e la sua Tangentopoli, si trattava di ripensare il ruolo della politica e le sue manifestazioni più esteriori. La verità che Cervi non rivelò mai è che il grande scrittore ci rimase molto male proprio con gli editori che per anni lo avevano coccolato. Non solo non accettarono il suo titolo, in fondo sono cose che capitano, ma ci fu un secondo retroscena che rese amara la piccola storia di quel libro. Cervi era abituato a pubblicare con un editore molto sollecito e che era ben felice di prendere al volo ogni suo papiello. In questa occasione traccheggiò: per mesi lo tenne in ballo senza dargli date e ordini di pubblicazioni precisi.