Lo scivolone di un mito della comunicazione

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Un giovane giornalista economico nel cuore della notte di ieri mi ha scritto: “Signor Ruggeri, sono passati 10 anni dal fallimento Bear Sterns, chissà quanti se ne ricordano. Doveva essere la fine del mondo, invece oggi la finanza è più ubriaca di prima, anche senza Vinitaly …”. Già, quanti si saranno ricordati che poi Bears Sterns sarà “salvata” da JP Morgan al prezzo di 2 $ per azione, con tutto quello che seguirà?

Già, chissà se fra 10 anni qualcuno ricorderà “quel” venerdì 20 aprile 2018 quando la nascita del primo governo dei “buzzurri” (il pentastellato Luigi Di Maio e il capo del centrodestra Matteo Salvini) era a un passo, per poi fallire miseramente dopo un paio di frasi dette in un comizio elettorale da un certo Silvio Berlusconi. Sì proprio lui, quello che nel 1994 ebbe l’investitura dal capo supremo dell’establishment, Gianni Agnelli, con la imperdibile locuzione: “Se alle elezioni vince, vinciamo noi, se perde, perde lui”. Aveva iniziato con il mitico “Questo è il paese che amo …”,

24 anni dopo si è schiantato insultando un terzo dei cittadini italiani colpevoli di aver votato il M5S e implicitamente un altro 17% schieratisi con la Lega. Alla sua furia non sono sfuggite intere categorie sociali come disoccupati (sic!), fattorini, rider, badanti, pulitori di cessi, etc. Fine ingloriosa di un mito della comunicazione. Una prece.

Nel frattempo, il divertissement della politica interna si è fatto sempre più interessante. Lo scontro tra “fighetti” (élite) e “buzzurri” (pentastellati e leghisti) è diventato sempre più divertente per chi, come me, osserva questi balletti con l’occhio disincantato del tecnico di laboratorio che, grazie al suo microscopio tridimensionale, osserva queste figurine Panini agitarsi sul palcoscenico della politica.

Finalmente il nostro establishment ha preso atto del volere della maggioranza degli italiani di essere governati dai “buzzurri”, dopo essersi dovuto sorbire, dal 2011, quattro governi di “fighetti”, uno peggio dell’altro. Questo fatto non ha convinto costoro a fare un passo indietro, lasciando che i vincitori si esercitassero a realizzare ricette diverse da quelle fallimentari dei loro protetti, rivelatisi dei maghi nelle chiacchiere progettuali, disastrosi nell’execution, impresentabili nei risultati. Terrorizzati dalla minaccia dell’arrivo dei “buzzurri” hanno deciso di scendere direttamente in campo. Subito hanno schierato tutte le loro forze naval-giornalistiche (le corazzate Big Five e i due cacciatorpediniere d’attacco della carta stampata, le sette reti tv, la quasi totalità delle radio) per scaricare tutta la loro potenza mediatica contro il partito strutturalmente meno scafato per resistere al loro mix seduzione-minacce: il M5S.

Sarà divertente a questo punto osservare lo spessore politico, culturale, umano dei vertici del M5S. La posizione dell’establishment ormai è chiara. Caduta l’ipotesi sognata da sempre: un governo dei due “Butler” (Matteo RenziSilvio Berlusconi) bocciata seccamente dai cittadini, resta il piano “B” (“tutti dentro, salvo Salvini”). Questa soluzione, presuppone il sacrificio di Luigi Di Maio, la castrazione chimica di Matteo Renzi (e dei renziani, giglio magico in primis), il rientro dei “sinistri” nel Pd, così dei moderati di ogni specie e setta, un caravanserraglio-rassemblement, nel quale ci sarà posto per tutti, salvo che per il povero Berlusconi. Se i cinquestelle accettano, si suicidano, con grande gaudio dei leghisti. Si creerebbe un caos completo: impazziti i “fighetti”, spaccati i “buzzurri”.

A questo punto resta solo il ritorno alle urne. Salvini si mangerà ciò che resta del berlusconismo? Altrettanto farà Di Maio con la sinistra piddina? Il bipolarismo centrodestra-centrosinistra verrà ricostruito e ringiovanito in un ambiente proporzionale? Le élite si ritireranno nel loro zoo, il mitico Partito d’Azione mascherato da En marche? Tante domande, nessuna risposta, per ora.

Una sola certezza: la fine ingloriosa di un mito della comunicazione.

Riccardo Ruggeri, 22 aprile 2018

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