A mio avviso, il fatto nuovo del nostro tempo è il grande scisma che ha investito il mondo liberale. Negli anni ’70 un assistente universitario che aveva chiesto di poter insegnare Storia delle dottrine politiche in una facoltà letteraria del Nord, aveva incontrato il veto di un noto antichista che aveva obiettato al suo sponsor: «Ma è un liberale!». Il veto rientrò dietro assicurazione che il candidato era, sì, liberale, ma vicino a Norberto Bobbio. Se fosse stato un simpatizzante di Giovanni Malagodi rien à faire. In seguito, siamo diventati tutti liberali al punto che, tranne forse il Manifesto non c’è quotidiano o schieramento politico che non si dichiari ligio a Locke, a Montesquieu, a Constant.
Oggi, però, grazie soprattutto ai dibattiti su populismo, nazionalismo, sovranismo, l’unanimità si va dissolvendo come i nostri bellissimi ghiacciai e ci si va rendendo conto che l’etichetta liberale copre due bottiglie diverse. Una bottiglia contiene il liberalismo storicista, l’altra il liberalismo universalista. L’uno nasce nell’età romantica con Edmund Burke, con M.me de Stael, con Benjamin Constant come critica al razionalismo rivoluzionario in guerra con la tradizione, la storia, la comunità politica etc. L’altro nasce nel ’700 come critica delle istituzioni secolari – gli Stati d’ancien régime – che non riconoscono i diritti degli individui. Il liberalismo universalista appartiene alla famiglia per così dire mercatista (o liberista) dell’illuminismo e, pertanto, è decisamente ostile al ramo giacobino e poi socialista. Ad accomunare i due fratelli coltelli, tuttavia, è il fatto che, per entrambi, i diritti individuali sono al centro della legittimazione politica: lo Stato è unicamente al servizio dei cittadini al di sopra dei quali ci sono soltanto “astrazioni”, fantasmi inquietanti, divinità esigenti che possono imporre perfino il sacrificio della vita.
La differenza rinvia alla diversa estensione dei diritti che debbono venir tutelati: per i liberisti, vanno assicurati l’ordine pubblico, il rispetto dei contratti, le libertà civili e quelle politiche; per i loro avversari, queste ultime non hanno senso se non vengono garantiti dallo Stato i diritti sociali: alla salute, alla casa, al lavoro etc. Ivan Krastev e Stephen Holmes, autori de La rivolta antiliberale. Come l’Occidente sta perdendo la battaglia per la democrazia (Ed. Rizzoli) scrivono, quasi con rimpianto, che il periodo della guerra fredda ha visto lo scontro «di due ideologie universalistiche – liberalismo occidentale e comunismo sovietico – entrambe nate dalla tradizione dell’illuminismo europeo» e che la mancanza di alternative ideologiche è un problema con cui dovremo confrontarci a lungo. Ma siamo poi sicuri che i “fratelli germani”, con la “fine della Storia”, non stiano per riconciliarsi?
La comune opposizione al sovranismo in realtà, sembra ricongiungere l’illuminismo occidentale e l’illuminismo postcomunista in una sorta di union sacreé contro il neo-comunitarismo, visto come reincarnazione del fascismo: il vecchio vizio illuministico di far di tutta l’erba un solo fascio (littorio). Sennonché come l’illuminismo anche il Romanticismo ha avuto un parto gemellare, lo storicismo liberale e il tribalismo ideologico. Entrambi hanno valorizzato le “radici”, le “eredità”, le affinità profonde ma mentre il primo ne ha fatto il terreno concreto su cui costruire le istituzioni della libertà, il secondo lo ha eretto a Moloch a cui tutto sacrificare. Gli eventi tragici sfociati nelle due guerre mondiali hanno portato gran parte del pensiero politico contemporaneo a una demonizzazione insuperabile dello “Stato nazionale” su cui si è riversata la stessa fatwa che gli illuministi avevano emesso contro le monarchie assolute.
È una condanna che ha finito per investire lo Stato in quanto tale, tollerato ormai solo in quanto braccio armato del Diritto. Nel suo commento a Montesquieu, Condorcet aveva scritto: «Non si vede perché tutte le province di uno Stato o anche tutti gli Stati non debbono avere le stesse leggi criminali, le stesse leggi civili, le stesse leggi che regolano il commercio. Una buona legge deve essere buona per tutti gli uomini, come una proposizione vera è vera per tutti». Per i liberali illuministi, grazie all’Europa (primo passo verso gli Stati Uniti del Mondo), grazie alle istituzioni internazionali e agli accordi finanziari sempre più vincolanti tra gli stati, la verità enunciata da Condorcet seppellirà le differenze artificiali mantenute in vita dagli Stati nazionali.
Cosa ci riserva il futuro non è dato sapere. Va rilevato, comunque, che la filosofia universalista non garantisce la pace perpetua. A ragione o a torto, uomini e donne rivendicano la diversità come un valore e chiedono all’autorità politica di proteggerla, anche a costo di limitare i diritti. Come ha scritto Umberto Vincenti in un saggio magistrale, La religione dei diritti umani (in Giuseppe Valditara, a cura di, Sovranità democrazia e libertà, Ed. Aracne): «I diritti nati per liberare gli uomini dai vincoli della cetualità medievale e delle religioni di Stato hanno finito con il promuovere la libertà di azione del singolo in ogni dove, spesso in danno di altri e dell’interesse generale o diffuso».
Ma possono esistere, si chiede il giurista, “sovranità popolare e democrazia se al popolo” è “interdetto di decidere, almeno oltre una certa misura, sulla libertà d’azione dei singoli individui”? Quello di Vincenti è il liberalismo storicistico che dall’’800 arriva fino a Benedetto Croce, Rosario Romeo, Renzo De Felice. Forse i libertarian genere Alberto Mingardi non hanno ancora vinto la partita.
Dino Cofrancesco, Il Dubbio 9 maggio 2020