Il professor Dino Cofrancesco ci scrive su un tema tornato di attualità in questi giorni: il fine vita, partendo dalla la posizione critica nei confronti della sentenza della Consulta sul caso dj Fabo sostenuta dal prof. Marco Gervasoni su Il Giornale. Il dibattito è aperto.
Caro Marco Gervasoni,
ho letto con interesse l’editoriale che inaugura la tua collaborazione al Giornale e debbo dirti, francamente, che ne ho condiviso parecchie critiche alla ever green “cultura della resa” (come la chiamava Federico Orlando prima di cambiar casacca..) ma non l’accenno alla “dolce morte“. Condivido in toto la posizione di Vittorio Feltri e di Pino Farinotti al riguardo, che era poi la stessa di Indro Montanelli – e prima ancora di David Hume e di John Stuart Mill – ma ciò che penso io non ha molta importanza. Quello che mi preoccupa, invece, è il fatto che un tema bioetico, molto controverso – come l’aiuto al morire – venga consegnato alla sinistra anche se molti liberali, liberal-conservatori, conservatori sono sostanzialmente d’accordo con la sentenza della Consulta.
Non dividiamoci su quelli che un tempo erano considerati problemi di coscienza (e sui quali si dava libertà di voto) ma su altri aspetti ben più rilevanti della nostra civic culture come la disgregazione della famiglia iscritta nei progetti della Cirinnà – primo fra tutti l’adozione gay inaccettabile per un liberale giacché non riguarda due persone dello stesso sesso (che possono unirsi, separarsi, designarsi come eredi etc..) ma un terzo, un minore, che non è libero di scegliere il tipo di famiglia (“tradizionale” o gay) in cui vivere. Con tutto il rispetto per la Chiesa cattolica e per i cattolici liberali, l’etica liberale non deriva dalle dottrine sociali della chiesa ma da una filosofia ben più antica, i cui assunti spesso coincidono ma a volte non coincidono con quelli cristiani. Da sempre laico – e mai laicista: non conosco altri che come me abbiano tanto stigmatizzato il fanatismo anticlericale alla Ernesto Rossi – credo che cattolici e liberali possano e debbano convivere in uno stesso partito ma non per questo rinnegare i rispettivi antenati.
Ripeto, sull’aiuto al morire si possono avere opinioni diverse ma, trattandosi di questioni complesse e delicate, mai come in questo campo s’impone il rispetto degli avversari (presenti a destra come a sinistra). Un paese in cui quanti antepongono la qualità della vita (ce ne sono a destra, al centro, a sinistra) alla sua conservazione a tutti i costi come dono di Dio, foggiano il “senso comune” dei “giornaloni” e diventano il rabbioso bersaglio dei “giornalini” dell’area moderata, è un paese in cui non mi riconosco. Gli insulti di Vittorio Sgarbi sono il segno di un imbarbarimento che mi impensierisce molto giacché dissecca irreparabilmente il terreno su cui dovrebbero fiorire il pluralismo liberale di Isaiah Berlin e la dialogicità di Guido Calogero. Le crociate contro i simboli viventi del Malum mundi sono cose di sinistra (di questa sinistra che ha perso la bussola: ben altra cosa era la sinistra della mia giovinezza): lasciamole ai Gad Lerner, alle Laura Boldrini, ai pasdaran del politicamente corretto che vorrebbero liberare il mondo da razzismi, nazionalismi, sovranismi etc. Il liberale non grida giacché i suoi maestri – più che Locke e Montesquieu – sono Montaigne e Hume la cui saggezza scettica è la quintessenza della sua visione del mondo.
Comprendo le perplessità di molti cattolici liberali e di non pochi atei devoti ma il problema su cui richiamo l’attenzione degli amici liberali, insisto, è un altro: è mai possibile che in bioetica non si riesca a ragionare in maniera pacata? Le intemperanze di Sgarbi mi ricordano quelle di uno stimato collega divenuto parlamentare, che al padre della povera Eluana Englaro gridava “Assassino!”. Eh no! Questo non è il mio “stile di pensiero”. Capisco chi, per il suo credo religioso, vorrebbe mantenermi in vita anche se mi trovassi nelle condizioni di dj Fabo ma non capisco perché debba essere vilipeso e insolentito se dico che, per me, la “qualità della vita” è un valore superiore alla difesa della vita a ogni costo e in qualsiasi condizione. Come liberale, vorrei che lo Stato non s’impicciasse ma se poi una legge dello Stato potrebbe condannare Marco Cappato a 12 anni di galera, lo Stato s’impiccia eccome!
Ricordo sempre quanto mi ha raccontato un fraterno amico che ci ha lasciato qualche anno fa – tra l’altro uno degli ultimi giganti del giornalismo liberale italiano. Sua madre, ultraottantenne, ridotta allo stato vegetale, non si decideva al trapasso. Bastò (allora nell’Italia democristiana! ) uno sguardo d’intesa tra il figlio e il medico per “risolvere il problema”. Che tutto, proprio tutto, debba avvenire alla luce del sole, che di qualsiasi decisione “privata” si sia tenuti a rendere conto all’autorità giudiziaria non mi sembra un segno di “maturità liberale”. Ma forse sbaglio e hanno ragione quanti assimilano i giudici della Consulta alla buonanima di Antoine Quentin Fouquier de Tinville, il PM del Tribunale rivoluzionario costretto nel 1795 dai termidoriani – i “grandi camaleonti d’oro” nemici del progresso e dell’eguaglianza – a deporre la toga (e la testa).
Ps: Non ti avrei scritto queste righe se non ti stimassi molto. Come forse ricordi, pur dissentendo dalle tue intemperanze verbali (che un comune amico, insigne storico, ha ricondotto a esuberanze papiniane) mi sono dichiarato pronto a firmare una lettera di denuncia della tua espulsione dalla Luiss (formalmente ineccepibile). Dove c’è una battaglia liberale da fare non mi tiro indietro, purché si tratti di una battaglia liberale e non di dar man forte alla condanna (peraltro legittima) della sentenza della Consulta da parte della Chiesa che ci riporta al Sillabo e a Pio IX (simboli, beninteso, che non appartengono alla mia famille spirituelle ma che non demonizzo affatto, non essendo un fanatico delle Lumières).
Dino Cofrancesco, 3 ottobre 2019