Se anarco-capitalismo suona già da diverso tempo come un anatema a causa delle supposte conseguenze immorali ad esso incriminate, nel presente stato paternalistico delle cose diviene sinonimo di pubblica inimicizia. Ma tant’è: L’etica della libertà, che torna in questi giorni in libreria in una nuova edizione, Murray N. Rothbard, il maggiore esponente dell’anarchismo individualista del Novecento, accoglie felicemente tale sfida lanciando la sua audace penna nella fondazione di un’etica adeguata al capitalismo, aspirazione che oggi, ancor più di sempre, lo spinge controcorrente.
L’etica della libertà è un’imponente costruzione libertaria che racchiude una sinergia di influenze di diversa natura, dall’economia alla filosofia politica, e custodisce la formulazione di un’innovativa teoria politica della libertà, fondata a sua volta su una peculiare teoria della giustizia, secondo la quale una società può dirsi giusta quando i diritti di proprietà privata degli individui vengono tutelati; è libera dunque quella «società nella quale nessun titolo di proprietà viene “distribuito” da chi non ne è titolare; una società, in breve, in cui nessuno può molestare o violare la proprietà di un uomo o interferire con essa»; solo la salvaguardia dei diritti di proprietà può costituire il limite dell’azione individuale libera e, di rimando, può dirsi crimine punibile soltanto quell’azione che lede la proprietà privata altrui.
In quest’opera, Rothbard volge la sua attenzione a una specifica matrice del suo pensiero, il giusnaturalismo, chiarendo come nonostante le accuse di conservatorismo esso è, in realtà, «un permanente atto d’accusa al regno della cieca adesione alla tradizione o a quello dell’arbitraria volontà dell’apparato statale». Non a caso, i due diritti sui quali è fondata l’etica rothbardiana – gli unici, d’altra parte, realmente tali – sono diritti di proprietà di discendenza lockiana: la self-ownership e l’homesteading, ossia la proprietà che ognuno ha di se stesso e delle risorse naturali che trasforma e fa fruttare. È proprio perché basata su diritti naturali che tale etica può pretendere di essere universale; un’universalità, però, esemplificata esaustivamente dall’accuratezza del particolare, dacché Rothbard non si risparmia nell’applicazione della sua teoria ai più disparati ambiti della vita umana, sradicando alcune tipiche ipocrisie odierne e depenalizzando quelle condotte che, seppur spiacevoli e immorali, rientrano appieno nei diritti del singolo.
Ne consegue un saldo antistatalismo, sorretto da argomentazioni di natura economica, quale la convinzione che non esistano beni pubblici, dal momento che, essendo i soli individui in grado di desiderare e di agire in vista di un fine, la volontà collettiva è solo un raggiro, così come l’inevitabile inefficienza dei servizi pubblici a causa dell’assenza di concorrenza, o semplicemente l’inadeguatezza storicamente dimostrata dell’interventismo in economia; ma soprattutto un antistatalismo basato sugli stessi diritti naturali di proprietà che guidano l’etica privata, a partire dai quali si può asserire che, a causa del monopolio della violenza e dell’usanza ladresca della tassazione, lo Stato non è altro che «una vasta organizzazione criminale» più fortunata e più longeva di qualsiasi mafia privata.
Al cuore della filosofia libertaria di Rothbard c’è dunque la libertà come fine politico supremo, da realizzare sulla base di un’autentica passione morale per la giustizia, con i mezzi più efficaci e immediati e che non entrino in contrasto con il fine stesso, rifuggendo perciò il paziente gradualismo e auspicando la nascita di un impavido movimento di happy warriors libertari impegnati, custodi della vigilanza delle coscienze.