Lo Stato evade il doppio di quanto facciano i contribuenti italiani. Messa così sembra un paradosso. Leggendo i numeri, elaborati ieri dalla Cgia di Mestre, si capisce bene come non lo sia affatto. Vediamo i numeri: 110 miliardi è l’evasione fiscale stimata dal ministero delle Finanze. Più di 200 miliardi sono invece gli sprechi, le inefficienze e gli sperperi della pubblica amministrazione. L’esattore è molto peggio dell’evasore.
Cerchiamo di tornare all’abc del nostro contratto sociale. I cittadini si mettono insieme perché ritengono che in condominio possano affrontare spese che altrimenti sarebbero impossibili da affrontare individualmente. Persino Adam Smith, il padre dei liberali, alla fine del ‘700 diceva che lo stato aveva un certo ruolo nell’economia; non solo si doveva occupare della difesa delle frontiere, della sicurezza dei villaggi e della giustizia civile e penale, ma avrebbe dovuto impegnarsi anche per realizzare quelle opere pubbliche che i privati non avevano convenienza a finanziare. Per fare ciò, è necessario che i contribuenti paghino dazio.
Nei secoli a questi compiti minimali (mica tanto, poi) si è aggiunta la costruzione dello Stato sociale, il sostegno ai più deboli. L’inganno micidiale in cui la retorica ci affoga è che tutte queste benedette funzioni essenziali del vivere civile (dalla giustizia alla sanità oggi ritornata tanto di moda) sono a rischio per le risorse che verrebbero a mancare a causa dell’evasione fiscale. L’esattore, e il politico suo complice, individuano così un capro espiatorio, indicano il colpevole: e cioè il cittadino-contribuente. Peccato che, come minimo, esattore e politico dovrebbero guardarsi in casa e riconoscere che la loro responsabilità nel mancato finanziamento delle funzioni pubbliche, ebbene la loro colpa è almeno doppia rispetto a quella dei cittadini contribuenti.
Non si pretende che tutto funzioni alla perfezione: ci sarà sempre un cittadino che non paga e un funzionario pubblico che ruba o non lavora. Ma non si capisce perché l’emergenza sia sempre quella fiscale, e mai quella statuale. La Cgia mette in fila un po’ di numeri che fanno paura e che sono elaborati da istituzioni e centri di ricerca al di sopra delle parti (dalla Banca d’Italia allo studio Ambrosetti). La burocrazia e le sue inefficienze costano 57 miliardi a cui si devono sommare 53 miliardi di debiti che la pubblica amministrazione si ostina a non liquidare ai suoi fornitori privati. Sommate queste sole due voci e si raggiunge il totale dell’evasione fiscale. Gli artigiani, c’è da comprenderli, non hanno il coraggio di essere brutali, ma si dovrebbe dire chiaro e tondo che grazie agli individui e alle loro tasse esiste la macchina dello Stato e dunque se l’apparato pubblico è inadempiente non si capisce per quale motivo i cittadini debbano rispettare la propria parte del contratto. Cerchiamo di essere più chiari, con un esempio molto pratico.
Fino a quando la pubblica amministrazione non onora le fatture per lavori e servizi che ha richiesto, il privato dovrebbe essere esentato dal pagamento di ogni imposta. Così semplice, semplice: in un mondo liberale, lo stato è al nostro servizio e non il contrario. L’evasore di un obbligo commerciale (lo stato) non viene messo alla gogna e non ne subisce le conseguenze: così facendo è incentivato a continuare nel suo comportamento illegale. Non ci sono le manette agli evasori pubblici. Ma si urla e si minacciano sempre i ceppi per quelli privati. Cerchiamo di essere ancora più estremi. Se un contribuente si permette di evadere più di una certa soglia (50 mila euro di imposta) va in galera e comunque nella fase processuale è costretto, anche prima della condanna a pagare una somma importante di quanto contestato secondo il medievale principio del solve et repete. Benissimo. Pretendiamo che il rappresentante legale di un’Asl, ministero o qualsiasi altro ufficio pubblico che si permette di non pagare entro i giorni stabiliti una fattura, vada in carcere.
Una proposta che ci fa arrossire: ma solo perché ormai siamo assuefatti all’idea che l’evasore pubblico in fondo è un po’ meglio di quello privato. No, è peggio. La lista della Cgia non si ferma a queste due prime caselle. 40 miliardi è il deficit delle infrastrutture e altrettanti delle lentezze della giustizia, 24 miliardi sono la spesa pubblica in eccesso e infine 12,5 miliardi sono gli sprechi della spesa per il trasporto locale. La somma supera i duecento miliardi.
Ci piacerebbe che il dibattito degli indignati sulla scarsa «compliance fiscale» degli italiani (così dicono), venisse spazzato via dall’analisi della ben peggiore infedeltà fiscale della macchina pubblica.
Nicola Porro, Il Giornale 30 agosto 2020