C’è una parte della politica italiana che pensa che la pandemia giustifichi qualsiasi intervento pubblico nell’economia e nella libera contrattazione fra privati, autorizzando il totale stravolgimento dei principii fondamentali di uno Stato di diritto. Nel campo immobiliare, le iniziative legislative di questo tipo – alcun realizzate, altre minacciate – sono più di una.
Quella più nota è il blocco degli sfratti. Attraverso diverse leggi, si è stabilito che fino al prossimo 31 dicembre non debbano essere eseguiti i provvedimenti dei giudici che hanno ordinato di restituire ai proprietari gli immobili oggetto di affitti giunti a conclusione (per lo scadere del termine di durata del contratto o per il mancato pagamento dei canoni). Risultato: immobili requisiti da dieci mesi, nessun risarcimento da parte dello Stato e in più – a mo’ di colpo di grazia – obbligo di pagare l’Imu e, in molti casi, persino l’Irpef sul reddito che non c’è. Il tutto, con effetti disastrosi sul mercato immobiliare e conseguenze negative sugli stessi inquilini, visto che la prima reazione dei proprietari è quella di giurare a sé stessi: mai più affitti (al più quelli brevi, quando torneranno i turisti).
Lo scopo con il quale viene giustificata la disposizione – proteggere i cittadini più vulnerabili nel periodo della pandemia – è fallace. Basta consultare il sito Internet di Confedilizia per leggere tante storie di proprietari ridotti in miseria per effetto della sospensione delle esecuzioni. In ogni caso, anche nelle realtà – ovviamente esistenti – in cui vi è una difficoltà dell’inquilino, è il sistema pubblico che deve farsi carico della cosa, non un altro privato su imposizione dello Stato.
L’emendamento nascosto del Pd
In questi giorni in Parlamento c’è chi sta tentando di prolungare di ulteriori il blocco, fino ad arrivare ad un anno e oltre. Iniziativa improvvida, in particolare di esponenti del Movimento 5 Stelle (tre mesi in più) e di Liberi e Uguali (sei mesi in più), ma almeno trasparente.
Subdola, e dai contenuti persino più negativi, è invece la disposizione che alcuni parlamentari del Partito democratico hanno proposto di inserire nella legge di bilancio. Il titolo dell’emendamento – che, come per gli articoli dei giornali, è spesso l’unica cosa che viene letta – è rassicurante: “Misure in materia di procedure di sfratto ed incentivi e agevolazioni alla rinegoziazione dei canoni di locazione abitativi e ad uso diverso dall’abitativo”. Guardate quante parole evocative di positività: “incentivi”, “agevolazioni”, “rinegoziazione”. Peccato che il contenuto dell’emendamento sia tale da far impallidire la legge illiberale per eccellenza, quell’equo canone introdotto nel decennio più dirigista del secolo, gli anni Settanta.
Che cosa prevede, in sostanza, la proposta dei deputati Pd? Che l’inquilino di un immobile abitativo o non abitativo in affitto possa chiedere – autodichiarando di aver subìto un calo “del suo reddito familiare o di un’impresa pari almeno al 50% rispetto ai corrispondenti mesi dell’anno precedente e in ogni caso quando l’incidenza del canone di locazione contrattuale sul reddito che ha subìto la riduzione, risulti superiore al 30%” – di attivare una “negoziazione stragiudiziale” di fronte a una commissione paritetica.
La norma illiberale “nascosta”
Questo, però, è una sorta di specchietto per le allodole. Subito dopo, infatti, inizia la parte che ai proponenti interessa davvero disporre. Il comma 2 dell’articolo proposto prevede, infatti, che l’inquilino, “anche nel caso di esperimento negativo del tentativo di negoziazione avanti la Commissione paritetica, o per mancata adesione di parte locatrice o per mancato raggiungimento dell’accordo, potrà adire l’autorità giudiziaria onde ottenere un provvedimento di riformulazione e riduzione dell’entità del canone”.
In sostanza, con questo emendamento si attribuirebbe al giudice il potere di ridurre a proprio piacimento, e senza l’indicazione di alcun parametro, il canone di locazione di un contratto liberamente sottoscritto fra due parti private, in presenza del solo presupposto dell’autodichiarazione dell’inquilino di aver registrato una diminuzione del proprio reddito.
Ma c’è di più. In caso di procedura di sfratto per morosità, la presentazione della domanda di negoziazione comporterebbe – secondo la proposta dei parlamentari Pd – “la sospensione del procedimento per un periodo non inferiore a 90 giorni al fine di consentire lo svolgimento della procedura davanti alla commissione paritetica”. Capito bene? “Non inferiore” – dunque al minimo tre mesi – e senza l’indicazione di un limite massimo! Una previsione di fronte alla quale la proroga degli sfratti di tre/sei mesi richiesta dai senatori M5S e Leu rischia di passare per benevola nei confronti dei proprietari.