Speciale zuppa di Porro internazionale. Grazie a un nostro amico analista che vuole mantenere l’anonimato, il commento degli articoli tratti dai giornali stranieri.
Sul Financial Times del 16 aprile il corrispondente dagli stati nordici e baltici Richard Milne, descrive la situazione della Svezia, riportando il parere di importanti ministri che difendono “the country’s decision not to impose a lockdown in response to the coronavirus pandemica” la decisione del Paese di non sostenere una chiusura generalizzata in risposta alla pandemia e insistono sul fatto che “this approach had strong public support, despite a mounting death toll and sharp criticism from some scientists” questo approccio abbia avuto un forte supporto pubblico, nonostante l’aumento delle morti e puntute critiche di alcuni scienziati.
Il ministro degli esteri Ann Linde dice al quotidiano della City “We don’t believe in a lockdown if it’s not going to be sustainable over time” noi non crediamo che la chiusura totale sia sostenibile nel tempo. E si appella alla tradizione di oltre cent’anni “of following the advice of expert authorities when making decisions. Sweden’s public health agency recommended against closing primary and secondary schools, but the country did close them for students older than 16” di seguire il parere delle autorità scientificamente competenti. L’agenzia per la salute pubblica svedese si è schierata contro la chiusura delle scuole materne, elementari e medie, e ha chiesto di chiudere solo quelle per ragazzi oltre i 16 anni.
“Much of the Swedish approach is centred around the idea that dealing with coronavirus will be “a marathon, not a sprint”, with measures likely to be in place for months, if not years. Authorities believed that closing schools and kindergartens would have caused some key workers such as doctors and nurses to have to stay at home”. Molto dell’approccio svedese, scrive Milne, si basa sull’idea centrale che la lotta al coronavirus sarà una maratona non una gara di pura velocità, durerà mesi se non anni. Le autorità scientificamente competenti hanno fatto notare che chiudere certi ordini di scuole avrebbe costretto infermiere e dottori a stare a casa.
Il ministro Linde continua spiegando che quel che fanno: “It’s very different to compare countries with different circumstances” è molto diverso dal comparare paesi con caratteristiche diverse. Milne registra anche che “Swedish business people have been perhaps the most vocal in Europe on the need for authorities to balance the needs of the economy and plan for an eventual recovery with the measures required to fight coronavirus” la comunità impreditorialie svedese è stata la più mobilitata nel chiedere che le autorità bilanciassero le misure per combattere il coronavirus con le esigenze dell’economia.
Certo il corrispondente del Financial Times ricorda anche che le “Swedish authorities are under pressure due to a rising number of coronavirus infections in elderly homes” autorità svedesi sono sotto pressione per l’incremento dell’epidemia nelle case per anziani. Ma è una pressione sociale e politica non lo squadrismo mediatico-giudiziario che si sta alimentando in Italia.
Tra le tante osservazioni interessanti di questo articolo val la pena di sottolineare quella sulle differenze del territorio che richiedono un diverso approccio nella lotta all’epidemia. Agli allegroni che vorrebbero riportare paro paro la cura svedese in Italia, ad esempio va ricordato, come la Svezia con 450.296 chilometri quadrati di superficie (pur comprese tutte le foreste) abbia 10 milioni e 230 mila abitanti, mentre l’Italia su una superficie di 301.338 metri quadri ha 60 milioni 360 mila abitanti (ciò vale anche per il rapporto Lombardia – Veneto: la prima con una superficie di 23.844 metri quadrati ha 10 milioni e 60 mila abitanti, la seconda, con 18.345 metri quadrati ha 4 milioni e 960 mila abitanti).
E quando si parla di differenze sarebbe bene distinguere tra una Lombardia colpita dall’effetto della dorsale della piccola media industria che parte dal Belgio e arriva poco sotto il Po, e insieme da quello di una città affaristicamente (in particolare nei rapporti con la Cina) cosmopolitica come Milano che ha subito un effetto tipo New York, ben differente per esempio da quello che tocca una città come Roma certamente largamente aperta a un pubblico internazionale ma meno a quel ceto imprenditoriale così immerso nella vita dei luoghi di espansione del coronavirus.
Tutto ciò non assolve dagli errori ma dimostra che solo un forte legame con il territorio, che sembra assai indifferente al governo in carica, può consentire di affrontare la terribile emergenza che stiamo vivendo.