Poi volevo sprofondare per non vedere la delusione mista a disprezzo dipinta sulle facce degli astanti. In quella delusione si leggeva come in un libro illustrato: ma questo chi è, e che ci fa qua dentro? Ahi, dura terra…”
Con il passare del tempo, il gap generazionale tra docente e ragazzi si fa sentire sempre di più. “E arrivò il giorno in cui la differenza d’età tra me e i miei allievi cominciò a essere davvero troppa. […] Ma lo iato si rivelò in tutta la sua drammaticità quando non riuscii più a entrare nel loro mondo, a capire quali fossero i loro gusti o cosa passasse loro per la testa”. Cammilleri guarda quei ragazzi e si accorge che le sue risposte saporite nulla valgono di fronte a chi le domande non le ha. “La cosa veramente sconvolgente era questa: sembrava non volessero nulla. E quando uno non vuole nulla, cosa puoi dargli? Forse avrei potuto resistere ancora, forse avrei inventato qualcosa. Ma avevo davanti dei ragazzi a cui praticamente non sapevo più cosa dire”.
Il professore si trova all’angolo, vinto. Si sente incompreso e, complice una disfonia, lascia. L’autore ci mette a parte di una sua scelta, grande e sofferta. È forse a quel punto del romanzo che avrei voluto fermarlo e ricordargli quel bellissimo imprevisto di qualche pagina prima che lo aveva avvolto e che, forse, aveva in nuce una risposta: l’opportunità dello stage con i colleghi.
“Quel che si aspettava con tacita ansia, dello stage, era la sua fine giornaliera. Cioè, la serata, con cena e dopocena. […] Sì, perché quei notturni dopolavoro finirono col diventare davvero simpatici e giulivi. Gli ingredienti c’erano tutti: atmosfera amicale, distanza dai problemi quotidiani, trasferta tuttopagato. Ebbi la netta impressione che l’ultima volta in cui ci eravamo divertiti davvero risalisse agli ormai lontani tempi dell’università. Già: dopo qualche giorno, presa reciproca confidenza, ecco le battute goliardiche, le celie nonsense, le risate rumorose, i goffi accenni a passi di danza sulla pubblica piazza. Al ritorno, in albergo, una volta l’oste dovette rimproverarci apertamente perché all’una di notte ancora si cantava a squarciagola. Vedevo me stesso e gli altri in una luce inusuale. Mi veniva da chiedermi: dov’eravamo vissuti fino a quel momento, in una scatola? Non mi sarei aspettato un simile éclat de joie de vivre in persone fino a poco prima così sussiegose e riservate. Era stato il mestiere a comprimerci? Bella domanda”.
In quella occasione la condivisione della sincera leggerezza risulta semplice, mentre nella quotidianità scolastica la fatica, alla lunga, rischia di isolare e schiacciare i singoli; se entrambi gli aspetti venissero condivisi fraternamente, si rinascerebbe ogni giorno in un rapporto di complicità educativa e si potrebbe insegnare testimoniando vita.
Fiorenza Cirillo, 22 ottobre 2021