Laurea, specializzazione, master, tirocini, a volte dottorati, formazione continua, esperienze sul campo a nulla valgono di fronte al “secondo me”. Scardinare questo sistema di pensiero è a dir poco impossibile, visto che i genitori, in qualità di educatori, offrono gratuitamente il loro discretissimo contributo all’attività didattica. Vero è che questa didassi condivisa è un risultato inatteso dei venti di libertà del ’68 dai quali forse ci si sarebbe aspettato altro. Si aggiunga a tutto ciò un sistema sempre più teso alla compilazione di inutili scartoffie a dispetto dell’approfondimento di sane conoscenze, veri prodromi delle competenze necessarie per vivere.
Capire fino in fondo il percorso umano e lavorativo di un insegnante è per pochi e come categoria spesso si è talmente demotivati che ci si rifiuta pure di chiarire e spiegare a chi non sa, perchè costa una fatica che non vale davvero la pena. Tuttavia, per chi voglia toccare un mondo che non conosce o per chi insegnante lo è e voglia guardarsi meglio, c’è una verace testimonianza che potrebbe iniziare chiunque ai misteri scolastici: L’ombra sinistra della scuola di Rino Cammilleri.
Il Nostro racconta le sue avventure da liceale prima e da docente poi, in un confronto spassoso tra due epoche in cui il Sessantotto fa da spartiacque; cambiano dunque sia l’angolazione che il contesto storico-politico e il senso critico del lettore viene continuamente invitato a costruire intelligenti inferenze. Non nasconde nulla né le frustrazioni né le tentazioni né le intime decisioni e scrive a carte scoperte; vorrebbe proseguire con la carriera universitaria, è disposto a mettersi alla prova in mille altri lavori pur di non fare l’insegnante. Ma il destino è beffardo e insistente: «Tu che sei Figlio della Gallina Nera farai l’insegnante!» Questo è il leitmotiv a cui avrebbe voluto sfuggire, eppure il fato o Dio lo porta proprio là, in classe. “Dio o il destino? Meglio Dio. Sì, perché quando ci si accorge che la sorte è decisa è d’uopo fermarsi e riflettere. Il Destino? Se sì, è un Destino intelligente […] Allora tanto vale cambiargli nome e chiamarlo Dio. Perché Dio, dunque, voleva a tutti i costi che io diventassi Insegnante?”
Avrà modo, mettendosi in gioco, di scoprire un’attitudine che mai avrebbe immaginato e cioè di essere naturalmente portato all’insegnamento: sa spiegare bene e coinvolgere i ragazzi. Non solo, ma porta nel mestiere quell’impostazione goliardica che nella sua testa era rimasta indissolubilmente legata all’idea stessa di scuola e così sperimenta strategie per tenere i ragazzi avvinti e farli sorridere un po’: “Scopersi presto che gli scherzi erano utilissimi per ravvivare l’attenzione nei momenti di «stanca». Una gag era l’ideale: prendeva poco tempo e iniettava adrenalina nella spenta scolaresca. […] Così mi interrompevo e magari dicevo loro: «Io ho sbagliato mestiere. Sapete cosa avrei dovuto fare anziché star qui ad angustiarmi con voi?». E loro: «Cosa?». E io: «L’attore». Poi, dopo una pausa: «Di film erotici». Detta con la faccia giusta, veniva facilmente presa per quel che era: una battuta. E creava simpatia senza far perdere d’autorità» Ma lo facevo per me. Volevo ricreare quel clima realmente studentesco che vigeva nel mio vecchio liceo: un posto dove la mattina andavi volentieri perché non sapevi mai cosa sarebbe successo”.
Ma i tempi e le nuove sperimentazioni volute dal ministero trasformano la scuola in un immenso opificio in cui ciò che conta davvero è dimostrare un lavoro extra che poco o nulla ha a che fare con l’io dei ragazzi e, mentre questi rischiano l’apatia, il professore è oberato da sterili compilazioni: “Guai a farsi scoprire senza qualcosa di importante da fare: immediatamente veniva inventato un compito proprio per te, perché se c’era una cosa che mandava in bestia le Single Sperimentali era vedere qualcuno che non faceva niente”.
Per irrorare le sue passioni, il Nostro si ritaglia la partecipazione a convegni, in cui emerge per le sue qualità, ma non appena si trova con i luminari universitari il suo status sembra quasi un’onta: “In tali occasioni non era raro il caso di trovarsi fianco a fianco con Luminari Universitari, Saggisti di Rilievo Nazionale o addirittura Celebrità. Al pranzo o alla cena comune c’era sempre qualcuno che mi chiedeva coram populo di cosa mi occupassi. Io rispondevo, tacendo mezza verità, che insegnavo. E poi attendevo coi denti stretti, pregando con tutte le mie forze che non mi facessero la seconda domanda. Ma, implacabile come la sorte, arrivava: «Ah, lei insegna! E in quale Facoltà?». E io, con un filo di voce: «No, insegno al Geometra».
Poi volevo sprofondare per non vedere la delusione mista a disprezzo dipinta sulle facce degli astanti. In quella delusione si leggeva come in un libro illustrato: ma questo chi è, e che ci fa qua dentro? Ahi, dura terra…”
Con il passare del tempo, il gap generazionale tra docente e ragazzi si fa sentire sempre di più. “E arrivò il giorno in cui la differenza d’età tra me e i miei allievi cominciò a essere davvero troppa. […] Ma lo iato si rivelò in tutta la sua drammaticità quando non riuscii più a entrare nel loro mondo, a capire quali fossero i loro gusti o cosa passasse loro per la testa”. Cammilleri guarda quei ragazzi e si accorge che le sue risposte saporite nulla valgono di fronte a chi le domande non le ha. “La cosa veramente sconvolgente era questa: sembrava non volessero nulla. E quando uno non vuole nulla, cosa puoi dargli? Forse avrei potuto resistere ancora, forse avrei inventato qualcosa. Ma avevo davanti dei ragazzi a cui praticamente non sapevo più cosa dire”.
Il professore si trova all’angolo, vinto. Si sente incompreso e, complice una disfonia, lascia. L’autore ci mette a parte di una sua scelta, grande e sofferta. È forse a quel punto del romanzo che avrei voluto fermarlo e ricordargli quel bellissimo imprevisto di qualche pagina prima che lo aveva avvolto e che, forse, aveva in nuce una risposta: l’opportunità dello stage con i colleghi.
“Quel che si aspettava con tacita ansia, dello stage, era la sua fine giornaliera. Cioè, la serata, con cena e dopocena. […] Sì, perché quei notturni dopolavoro finirono col diventare davvero simpatici e giulivi. Gli ingredienti c’erano tutti: atmosfera amicale, distanza dai problemi quotidiani, trasferta tuttopagato. Ebbi la netta impressione che l’ultima volta in cui ci eravamo divertiti davvero risalisse agli ormai lontani tempi dell’università. Già: dopo qualche giorno, presa reciproca confidenza, ecco le battute goliardiche, le celie nonsense, le risate rumorose, i goffi accenni a passi di danza sulla pubblica piazza. Al ritorno, in albergo, una volta l’oste dovette rimproverarci apertamente perché all’una di notte ancora si cantava a squarciagola. Vedevo me stesso e gli altri in una luce inusuale. Mi veniva da chiedermi: dov’eravamo vissuti fino a quel momento, in una scatola? Non mi sarei aspettato un simile éclat de joie de vivre in persone fino a poco prima così sussiegose e riservate. Era stato il mestiere a comprimerci? Bella domanda”.
In quella occasione la condivisione della sincera leggerezza risulta semplice, mentre nella quotidianità scolastica la fatica, alla lunga, rischia di isolare e schiacciare i singoli; se entrambi gli aspetti venissero condivisi fraternamente, si rinascerebbe ogni giorno in un rapporto di complicità educativa e si potrebbe insegnare testimoniando vita.
Fiorenza Cirillo, 22 ottobre 2021