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L’Ue non ha capito la Brexit e gli inglesi. E questi alla fine vinceranno

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Ma ci siamo tutti rincretiniti per pensare che i grandi processi storici  possano essere frenati da accordi di migliaia di pagine, vergati in giuridichese, tra diverse burocrazie? Quando la moltitudine si muove, quando il potere costituente avanza, i deal sono misera cosa, se cercano di drenare il corso di questo fiume. Abbiamo usato questo termine in inglese perché, dopo il voto di Westminster del 29 gennaio, che ha ridato vita alla May, nella Ue e nei suoi cantori (che comprendono buona parte della stampa mainstream) si oscilla tra l’ironia, nel considerarla una vittoria di Pirro visto il no immediato da parte di Juncker e di Barnier, e l’incutere paura, descrivendo il no deal come l’arrivo dell’Apocalisse.

Può essere che la Brexit senza accordo sia catastrofica, può essere, anzi è molto probabile, che all’ultimo momento si troverà una soluzione. Ma perché dipingere come un’azione folle, scriteriata, quella che sarebbe la conseguenza del voto del referendum del 2016? In cui il potere costituente della maggioranza del popolo inglese si è espresso.

La realtà è che fin dal 2016 l’Europa continentale ha capito poco o nulla di quello che era avvenuto. Come non lo si è compreso in Italia: basti dire che, nella pubblicistica, il solo libro serio è stato Brexit la sfida, curato da Daniele Capezzone e da Federico Punzi (di cui ora è uscita una nuova edizione in e-book, sempre per le edizioni Giubilei). Per non dire dell’avvilente dibattito sui giornali mainstream.

E poi naturalmente la Ue, il suo gruppo dirigente, e quello dei suoi governi, hanno capito ancora meno. Che cosa non hanno compreso? La storia. Cioè che la Brexit non è un fulmine precipitato all’improvviso ma è un fenomeno ben inquadrabile nella storia e nella tradizione inglesi. Non è un caso che tantissimi storici siano in testa al fronte pro brexit, tra tutti Robert Tombs di Cambridge e Alan Sked della London School of Economics, uno dei fondatori dell’Ukip. E un altro storico, Brendan Simms, anch’egli a Cambridge, è quello che meglio ha descritto il lungo secolare rapporto tra l’Inghilterra e l’Europa intesa come continente. Sarebbe bastato a Juncker e a Barnier leggere il suo libro, Britains Europe: A Thousand Years of Conflict and Cooperation, per capire una po’ di più. Ma non avranno avuto tempo: troppo occupati a compulsare dossier e a frequentare briefing.

Un eventuale no deal brexit, che forse non sarebbe così catastrofico come dipinto, anche perché accompagnato da singoli accordi successivi, segnerebbe comunque l’ennesimo fallimento culturale della Ue. Non casuale. La Ue non può comprendere la Brexit come prodotto di una storia e di una tradizione perché la Ue non pensa in termini di storia e di tradizione. Per la Ue la tradizione non esiste o se esiste essa è da estirpare. Quanto alla storia, gli ideologi Ue la fanno cominciare nel 1957, mentre manipolano quella precedente, in modo tale da rendere l’avvento della «integrazione» simile a quello del regno dei cieli. Una mentalità religiosa, ma secolarizzata, quella della Ue, non poteva che scontrarsi con quella inglese: che, nonostante tutto, conserva ancora un legame con la storia e con la tradizione. E, se tanto mi da tanto, ho l’impressione che gli inglesi, che non hanno mai perso una guerra, non perderanno neanche questa.

Marco Gervasoni, 1 febbraio 2019