Mi sono presentato a casa sua una decina di giorni fa. È l’ultima volta che ho visto Antonio Martino. C’era sua moglie Carol, una delle sue due figlie. Un paio di ore di discussione fitta fitta sugli intellettuali, i liberali, cosa era rimasto della Forza Italia della prima ora, come si era ridotta la sua università, la Luiss. Dovevamo fare un libro insieme. Seduto sulla poltrona che fu di suo nonno e di suo padre e senza che il Prof si fumasse una delle sue contingentate Winston: non più di una dozzina al giorno conservate in un portasigarette.
Qualcuno pensa che Martino sia stato abbandonato dal partito che aveva contribuito a fondare, da quegli amici che gli gironzolavano intorno quando era in auge, da ministro degli Esteri e poi della Difesa. Forse sì. Ma Martino se ne è sempre «fregato». Era superiore. Fu lui a chiedere a Berlusconi di non essere più candidato in Parlamento. Mi confessò un giorno: «Rischiavo di sedermi accanto a persone che non avrei frequentato neanche al terzo whisky». Il Prof aveva frequentato da studente Milton Friedman, discuteva con Hayek, sfotteva Montanelli, aveva conosciuto i grandi della Terra, tenuto il discorso in perfetto inglese davanti all’assemblea dell’Onu per rivendicare la partecipazione al Consiglio di sicurezza: questo Parlamento non gli piaceva.
Alla fine del 1988 si presentò al congresso del Partito liberale con indosso un paio scicchissimo di ghette. Lo conobbi là: tenne un discorso contro l’obbligo del casco, si candidava alla segreteria del partito. Dissero che si trattava di provocazioni. Non lo erano: né l’una né l’altra. Pensava veramente ad un partito di liberali che non fossero lab e credeva veramente che all’inferno si scenda a piccoli passi: prima l’obbligo del casco, poi i lasciapassare. Nessuno ebbe più applausi di lui e nel contempo meno voti per la segreteria.
Un signore e un uomo libero. Proprio nel nostro ultimo incontro gli chiesi cosa pensasse di Berlusconi. «C’è un filtro, non me lo passano al telefono. Anche se non ho nulla da chiedergli. Non possiamo negare che nel suo animo sia un liberale, è un uomo che rischia e convince». Mi stupì inoltre questa sua ultima affermazione: «L’Italia oggi è piena di liberali, altro che quando ero giovane io, non siamo più quattro gatti».
Quando lo accompagnavo come portavoce (si tratta del 1994) nei viaggi di Stato come ministro degli Esteri era circondato da alti diplomatici, alcuni di loro erano anche siciliani e in parte suoi parenti. E quello che notavi era che il ministro, dunque la personalità più importante della delegazione, fosse anche quella meno legata all’establishment. È una cosa difficile da spiegare. Era come se Martino fosse sempre un passo indietro, e una spanna avanti. Prima di atterrare si concedeva sempre un’oretta di Wodehouse. Uno scrittore che adorava. Storie in cui financo il mitico castello di Blandings sembrava una barzelletta. Ecco Martino rispettava le tradizioni, veniva da quel mondo che le ha costruite, ma al tempo stesso ne era superiore, le sbertucciava quando c’era da farlo, le onorava quando se lo meritavano.
Fu lui in quegli anni a spiegare a israeliani e americani, con i quali aveva rapporti consolidati, che il primo governo Berlusconi, nonostante avesse imbarcato Gianfranco Fini, non era un esecutivo di post fascisti. In una sola giornata incontrò Shimon Peres e Arafat: al primo spiegò l’essenza del nuovo governo italiano e il secondo gli chiese di far aprire alcune catene di negozi di abbigliamento (citò Benetton) nei Territori. Fu lui a spiegare agli italiani perché le tasse non sono belle e che la flat tax è utile. «Berlusconi mi ha detto era anche più radicale di me, sull’adozione della flat tax». E fu lui ad insegnare ad una generazione di studenti che la spesa pubblica fatta in deficit non è altro che una tassa sotto mentite spoglie.
Appena nominato ministro, Martino ricevette una telefonata di congratulazioni da Friedman, al quale chiese un consiglio su come comportarsi da politico: «Compromessi sui dettagli sono accettabili gli disse il premio Nobel – mai sui principi». Una piccola grande lezione che Martino già conosceva e che bene rappresenta la sua vita.
«Come sta professore?», retoricamente gli chiedevo ogni volta che lo sentivo. E da anni rispondeva: «Compatibilmente».
Nicola Porro, Il Giornale 6 marzo 2022