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"E se tira Sinisa è gol"

L’ultimo tiro mancino di Mihajlovic: addio, Sinisa

È morto oggi l’ex calciatore. Quel fremito lungo la schiena ad ogni punizione

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Cosa vuoi dire di Sinisa Mihajlovic? Che era un combattente lo sanno tutti. Che amava il suo Paese pieno di contraddizioni, pure. Che non aveva timore di rivendicare una certa appartenenza politica (“tifo per Salvini”), anche. Se ne fregava, in fondo, di quello che dicevano di lui. “Uno che ha fatto due guerre può forse aver paura di essere mandato via?”. No, ovvio. Di sicuro Sinisa ha avuto paura della malattia. Pianse “tre giorni” quando gli diagnosticarono una leucemia mieloide acuta. Poi ha lottato, è tornato al lavoro, sui campi di calcio, ha scritto un libro, ha avuto una ricaduta “subdola e bastarda”, è stato esonerato. E oggi è morto.

Ma insomma: questo lo diranno tutti. E forse uno come lui non avrebbe apprezzato: come tutti noi aveva dei difetti, che di solito nei coccodrilli si sciolgono come neve al sole. Quando a Sanremo si presentò con Ibra sul palco convinto di aver vinto la malattia, disse che non pensava potesse succedere proprio a lui. Cinque figli, una moglie, un’infanzia in un Paese complicato come l’ex Jugoslavia di Tito, lo zio croato che voleva “scannare come un porco” il papà serbo, una carriera sfavillante da calciatore e un’altra ottima da allenatore davanti. Una malattia scoperta per caso. Perché a lui? Perché Mihajlovic? Ma in fondo è la domanda di tutti: perché proprio a me la sofferenza, il dolore e la morte? “Uomo unico, professionista straordinario, disponibile e buono con tutti”, piangono i suoi familiari. “Sinisa resterà sempre con noi. Vivo con tutto l’amore che ci ha regalato”.

Ecco, è questo il punto. Chi era Sinisa, il suo ruolo in campo, le vittorie, la carriera: leggerete tutto altrove, non qui. Io posso al massimo raccontarvi chi è stato Sinisa per un laziale bambino, unico biancoceleste in una famiglia di interisti, che ad ogni punizione concessa dal limite sentiva un fremito correre lungo la schiena. Sopra la barriera, sul lato del portiere, da distanze “siderali” che i calciatori di oggi se le sognano. Ha smesso di tirare punizioni un paio di anni fa, diceva, e si riteneva migliore di quasi tutti i suoi giocatori in attività. Ci credo: e se tira Sinisa è gol.

È difficile da spiegare, lo so. Ma Sinisa Mihajlovic per un laziale è quella camminata verso la curva biancoceleste per ricevere l’applauso al suo ritorno in campo dopo le cure. È il coro intonato ad ogni suo approdo all’Olimpico. È quel legame totalmente irrazionale che un tempo, oggi molto meno, si creava tra gli idoli in campo e i tifosi. Attaccamento alla maglia? Non so. Passione, di sicuro. “Io sono tifoso della Lazio”, ripeteva da avversario, “quando subisce gol c’è qualcosa dentro che non mi fa esultare”. A chi mi chiedeva perché non amassi mister Sarri, rispondevo sempre che avrei tanto desiderato Mihajlovic in panchina. Perché il calcio per alcuni è più questione di cuore che di risultati. Io sono uno di quelli. E se consegni da protagonista uno scudetto a chi ne ha vinti appena due, hai di diritto forgiato metà del cuore di quel ragazzino che sognava alle tue punizioni. Anche oggi, all’annuncio, è stato un fremito. Purtroppo diverso dal solito. Quest’ultimo tiro mancino, andartene così presto, speravamo potessi risparmiarcelo. Ciao Sinisa.

Giuseppe De Lorenzo, 16 dicembre 2022