“Politica, Sergio Mattarella: no alla democrazia della maggioranza di governo”, questo il titolo di un articolo pubblicato su Milano Finanza che sintetizza abbastanza efficacemente l’intervento del Capo dello Stato a Trieste, aprendo i lavori della Settimana sociale dei cattolici in Italia, dal titolo “Al cuore della democrazia”.
Mi sembra evidente il riferimento assai critico al tentativo operato dall’attuale maggioranza di migliorare la governabilità del sistema politico attraverso l’introduzione del cosiddetto premierato.
In estrema sintesi, Mattarella ha sottolineato un nesso che personalmente mi sento di rigettare in radice; ossia che la salute di una democrazia si basa su una grande partecipazione dei cittadini nella consultazioni elettorali. Di converso, sempre secondo l’inquilino del Colle, una bassa affluenza al voto denoterebbe una “democrazia a bassa intensità”. Quindi secondo Mattarella “i diritti fondamentali di libertà si inverano attraverso l’esercizio democratico. Se questo si attenua – ha proseguito in Capo dello Stato – si riduce la garanzia della loro effettiva vigenza. Democrazie imperfette vulnerano le libertà: ove si manifesta una partecipazione elettorale modesta. Oppure ove il principio un uomo-un voto venga distorto attraverso marchingegni che alterino la rappresentatività e la volontà degli elettori. Ancor più le libertà risulterebbero vulnerate ipotizzando democrazie affievolite, depotenziate da tratti illiberali.”
Ora, come ha fatto il titolare di questo giornale citando il caso emblematico delle elezioni appena svoltesi nel Regno Unito, vorrei sommessamente ricordare al nostro presidente della Repubblica che in alcune grandi democrazie il sistema elettorale è tale che spesso si raggiunge il paradosso che chi governa abbia ottenuto in assoluto meno voti degli sconfitti. Negli Stati Uniti, democrazia senz’altro più solida della nostra, in cui i meccanismi elettorali sono stati cambiati più e più volte a tutti i livelli, non è raro che il presidente eletto abbia ottenuto un minor consenso assoluto rispetto al candidato sconfitto. Basti pensare che Donald Trump, nel 2016, trionfò con quasi 3 milioni di voti in meno rispetto ad Hillary Clinton, ma ottenendo ben 304 grandi elettori rispetto ai soli 227 della sua avversaria.
Ebbene, vogliamo forse sostenere che la democrazia americana, che sta in piedi da circa 250 anni, sia una democrazia imperfetta?
In realtà, ciò che rende ancora molto solida la più importante democrazia dell’Occidente non è affatto la partecipazione al voto dei cittadini – che spesso non supera il 50% degli aventi diritto -, bensì la sostanziale osservanza del cardine fondamentale di ogni democrazia liberale: le prerogative e i limiti imposti dalla Carta costituzionale all’azione dei vari poteri dello Stato.
Limiti, che non mi stuferò mai di ricordare, sono stati messi letteralmente sotto i piedi in Italia, durante il lungo periodo buio di ciò che potremmo ricordare come una forma strisciante di dittatura sanitaria.
In quel drammatico frangente, abbiamo sperimentato sulla nostra pelle il senso più radicale del concetto di dittatura della maggioranza. Se, per avventura, avessimo sottoposto a referendum l’abominevole obbligo vaccinale – che per chi non lo sapesse solo noi abbiamo imposto -, probabilmente un popolo letteralmente terrorizzato avrebbe appoggiato il “Si” con una maggioranza bulgara. Quindi, riprendendo il ragionamento di Mattarella, ciò non avrebbe in alcun modo giustificato l’adozione di questa o altre misure liberticide.
Pertanto no, non è la percentuale dei votanti il termometro che misura la salute di una democrazia, bensì il rispetto delle garanzie di libertà scritte nella Costituzione e che prescindono da qualunque forma di governo. Soprattutto se quest’ultimo viene modificato nella forma e nella sostanza attraverso i meccanismi che la stessa Costituzione consente.
Claudio Romiti, 7 luglio 2024
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