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L’università cattolica che si preoccupa per la tenuta del Ramadan

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La Georgetown University è la più antica università cattolica degli Stati Uniti d’America e uno dei più prestigiosi atenei del paese. Fondata dal padre gesuita John Carroll nel 1789, non s’è persa d’animo durante la quarantena statunitense e ha pensato bene di proporre una conferenza in streaming per discutere le conseguenze che il nuovo Coronavirus ha provocato nel mondo delle religioni. The Covid-19 Crisis: Taking Stock of Religious Responses, è stato l’evento sul web, poco prima della Santa Pasqua, a caccia di risposte e soluzioni religiose in tempi di pandemia che più ha saputo far discutere.

D’altronde che il Coronavirus rappresenti un dura prova per i fedeli di tutto il mondo non è opinabile. Mai c’è stata una Pasqua così nella storia, mai una settimana santa con riti a porte chiuse, peccato però che per il celebre ateneo cattolico statunitense non fosse questa l’urgenza di cui discutere. L’evento, sebbene si sia svolto a ridosso della più importante solennità della cristianità, non si è occupato della Pasqua, né delle conseguenze delle misure adottate per la fede di cattolici, ebrei e ortodossi. C’è stato il tempo solo per indagare e preoccuparsi delle restrizioni che potrebbero compromettere il ramadan iniziato ieri. E così, accanto al moderatore, Katherine Marshall del Berkley Center, c’era anche l’imam Mohamed Magid, perché non si poteva correre il rischio di mancare nel rappresentare le istanze della comunità islamica. C’erano poi Olivia Wilkinson, dirigente della Joint Learning Initiative on Faith and Local Communities, e David Robinson, consulente indipendente per le emergenze umanitarie.

Wilkinson, la cui biografia online sostiene che la sua ricerca si concentra su influenze secolari e religiose nell’azione umanitaria, ha introdotto la conferenza per spendere subito due parole a sostegno dei veri emarginati dal Coronavirus: “siamo ben consapevoli del fatto che la mancanza di finanziamenti per il sostegno di rifugiati e migranti sono un’emarginazione economica che influenza la loro vulnerabilità aggravata dalla pandemia”. Prima di cedere la parola all’imam, ha voluto quindi citare i “cesti alimentari” per il ramadan come un “servizio” colpito dalla crisi. Per l’imam Magid il Coronavirus è stato la risposta al mondo che aveva bisogno di una “teologia della crisi”, ma loro non si sono scoraggiati e ha indicato tutte le “idee creative” per celebrare il ramadan comunque.

Anche se sarà difficile, anche se la quarantena sarà una dura prova per la comunità islamica durate il mese sacro. “Non credo che il mondo sarà lo stesso dopo questo”, ha detto. “Anche il nostro insegnamento e la nostra predicazione cambieranno”. I paladini del sincretismo non agiscono più sotto mentite spoglie né dissimulano, hanno abbandonato persino il copione che voleva far contenti tutti, adesso il cavallo è tranquillamente un ronzino che deve compiacere l’ecclesiasticamente corretto. E non si tratta di fare una classifica delle priorità – sebbene sarebbe opportuno per un ateneo cattolico artefice di un inquietante paradosso – bensì, magari, di sottolineare l’evanescenza nel parlare di ramadan e di tutela delle celebrazioni, perché ha in sé disinformazione e confusione spirituale. E certamente non perché i maomettani non meritino rispetto.

Se infatti per la Georgetown University il divieto della messa e della Santa Pasqua non meritavano attenzione né valeva la pena discutere circa le sofferenze dei loro fratelli nella fede, a noi preme chiarire, in breve, cos’è il ramadan e perché è fuori luogo parlare di “difficoltà” e “sofferenze” per la celebrazione del mese islamico. Tralasciando la tendenza dell’ateneo a sostenere la dawa’h islamica, il mese più importante per il mondo musulmano è uno dei cinque pilastri della fede islamica, un atto pubblico di sottomissione ad Allah con una forte valenza collettiva. Esiste una differenza abissale tra il ramadan, la Pasqua e la quaresima. Non si tratta di un digiuno che presuppone la penitenza, ma che semplicemente apre al Al-Iftar, la rottura del digiuno serale, quando si mangia e si fa festa.

La tradizione prevede che venga accompagnato dalla preghiera e dalla lettura del Corano, anche se l’apice della giornata è il momento dopo il tramonto. Quando, cioè, diventa possibile e opportuno dare il via a divertimenti, cene, feste. È un momento talmente rallentato nella vita islamica che il vero saluto per questo periodo è “ne parliamo dopo il ramadan”. Durante il giorno, quando non possono neanche bere, le attività fisiche vengono ridotte al minimo. La vita si ferma e i musulmani che vivono in Occidente tendono a chiedere periodi di ferie: il risveglio dai festeggiamenti non è mai semplice.

Provate a domandare alle compagnie di trasporti in Inghilterra, per esempio, cosa sono costrette a sopportare con gli autisti islamici. O alle aziende del nordest Italia dove la Cgil di Treviso ha pensato bene di stilare un vademecum per tutelare la salute dei lavoratori: dalle lunghe pause fino ai turni meno pesanti. I Paesi a maggioranza islamica registrano sempre un’impennata dell’importazione di generi alimentari durante il ramadan, i consumi aumentano, le televisioni moltiplicano la programmazione notturna: insomma, quello che accade dopo il tramonto è quasi più importante del digiuno, e il ramadan è sostanzialmente un mese di festa. Mai durante l’anno si consumano così tanti dolciumi come nelle notti di ramadan. E persino la Camera di commercio di Milano ogni anno registra un incremento di attività per i negozi islamici.

Un sondaggio di qualche anno fa condotto in Marocco verificava come la maggioranza della popolazione fosse ingrassata nelle quattro settimane di ramadan: molti anche di sei chili in più. Certo, in giorni di quarantena il pasto che comincia al tramonto sarà meno abbondante e festoso, come lo sarà quello dopo le quattro, che precede l’alba.

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