Piccola digressione nazionale. Lo scorso 8 marzo, in occasione della festa della donna, le femministe di Non una di meno sono scese in piazza per urlare la loro protesta non tanto, o non solo, per i diritti delle signore quanto in sostegno alla causa palestinese. Legittimo, anche se forse fuori tema. Fatto sta che gli inviati di Quarta Repubblica sono andati a chiedere cosa ne pensassero degli stupri e degli abusi di Hamas contro le donne ebree. Le risposte? C’è chi ha inquadrato il tutto in una “azione di resistenza”, chi considerava le israeliane “colonizzatrici” e chi non si fidava dei video e delle fotografie sul massacro messo in atto dai palestinesi. “Non ci possiamo fidare di tutti i dati che arrivano – spiegava una ragazza – Cito un’inchiesta del New York Times secondo cui alcune donne, che avevano dichiarato di aver subito violenze in realtà sono state pressate da diversi organi di governo israeliano”.
Bene. A queste femministe a targhe alterne bisognerebbe allora far leggere il drammatico racconto di Amit Soussana, avvocato quarantenne, ebrea, che ha trovato il coraggio di raccontare il suo calvario in un articolo sul New York Times. Il 7 ottobre, Amit è stata rapita dalla sua abitazione da parte di uomini armati, un evento che l’ha portata a subire violenze e abusi sessuali durante la sua detenzione a Gaza. Amit è una civile, non un soldato. È innocente.
Il reportage del New York Times descrive i momenti di terrore vissuti da Amit, quando, rifugiata nella sua stanza blindata, sente avvicinarsi gli assalitori che poi la catturano, nonostante il tentativo di fuga.
Nei giorni di prigionia, Amit è stata segregata nella stanza di un bambino, adornata con immagini di SpongeBob, è stata tenuta incatenata dalla caviglia ed è stata costretta a subire le violenze di un uomo noto come Muhammad. L’uomo la interrogava su aspetti intimi della sua vita, spesso si sedeva sul letto di fianco a lei, le alzava la maglietta e la toccava.
Soussana ha tentato invano di proteggersi, fingendosi nel periodo mestruale, per evitare violenze. Ma non è bastato. Un giorno il suo aguzzino l’ha lasciata andare in bagno e quando lei si è spogliata si è fermato di fronte alla porta con in mano una pistola. “È venuto verso di me e mi ha puntato la pistola alla fronte”, ha raccontato. L’uomo prima l’ha colpita, poi l’ha palpeggiata, infine l’ha trascinata nella camera da letto del bambino e “puntandomi la pistola addosso mi ha costretto ad un atto sessuale”. Soussana è la prima donna israeliana a parlare pubblicamente delle violenze subite. “Nelle sue interviste con il Times – scrive in quotidiano – condotte principalmente in inglese, ha fornito ampi dettagli sulle violenze sessuali e di altro tipo subite durante un calvario di 55 giorni”.
La liberazione di Amit è avvenuta nel quadro di negoziati per un cessate il fuoco, che hanno portato al suo rilascio e di altri 105 ostaggi. Tuttavia, il percorso verso la guarigione rimane arduo, con ferite psicologiche e fisiche ancora aperte. Dopo la sua liberazione, Amit ha condiviso i dettagli delle atrocità subite con un ginecologo e un’assistente sociale, come riportato dal New York Times, che hanno confermato la veridicità e la gravità delle sue parole.
Divenuta simbolo di resistenza, Amit ha scelto di parlare pubblicamente nella speranza di attirare attenzione sulla condizione degli oltre 100 ostaggi ancora trattenuti a Gaza. Domanda alle femministe di casa nostra: se non vi è bastato il report delle Nazioni Unite, ci credete, adesso?