In politica interna, l’anti-sovranismo, che l’uomo della strada capisce, sembra ridursi sostanzialmente all’opposizione alla politica dell’accoglienza, in nome dell’universalismo cattolico e dell’umanitarismo romantico-illuminista. Ci si chiede, però: possono essere squalificati moralmente e culturalmente come ‘nazionalisti’ quanti, pur non riconoscendosi nello ‘stile politico’ del Viminale, sono decisamente contrari alle frontiere aperte, per non dire spalancate, che tanti buonisti invocano? Come dicono i risultati elettorali, tra i ‘cattivisti’ c’è la maggioranza del popolo italiano ma anche un numero crescente di professionisti e di studiosi all’antica, che non amano comparire sui giornali. Le loro ragioni possono essere discutibili ma ha senso squalificarle a priori come ‘sovraniste’?
Forse è il momento di rendersi conto che il politically correct – su cui Eugenio Capozzi ha scritto un bellissimo saggio (Politicamente corretto. Storia di un’ideologia, Ed. Marsilio) – non implica più il ‘rispetto dell’altro’ – come negli anni in cui il compiano Flavio Baroncelli scriveva un saggio godibilissimo, Il razzismo è una gaffe. Eccessi e virtù del «politically correct», ed. Donzelli 1996 – ma è diventato la cancellazione della dignità dell’altro. Se la ratio del ‘politicamente corretto’ è «il diritto a non riconoscermi nella definizione che l’altro da di me», come nessuno può chiamarmi ‘negro’ così nessuno può darmi del ‘sovranista’, se tale non mi sento. Il nuovo ‘politicamente corretto’ censura il primo caso, giustifica l’altro. Nessuna denuncia al tribunale, per carità di Dio, giacché non viviamo ancora in una democrazia giudiziaria.
Dino Cofrancesco, Paradoxa-Forum