Su Anteprima di Giorgio Dell’Arti leggo (dati certificati Ads) che in un anno, gennaio su gennaio, Repubblica ha perso 35.000 copie (scendendo a gennaio 2018 a 151 mila), il Corriere ne ha perse 10.000 (187 mila), il Sole 9.000 (49 mila), il Fatto 3.000 (32 mila).
Mi metto nei panni della Famiglia De Benedetti, di Urbano Cairo, degli azionisti del Sole e chiederei a management e direttori: che piano avete, non dico per guadagnare ma per non continuare a perdere copie e forse quattrini? Com’è possibile che il Fatto con 30 mila copie abbia visibilità e impatto mediatico sulla politica pari agli altri tre, e non solo? Perché i primi cinque quotidiani italiani hanno, sostanzialmente, la stessa linea editoriale filo sistema? Splendidi balletti dall’eccellente coreografia destinati a quattro gatti che la pensano tutti uguale.
Possibile che l’establishment dopo aver distrutto la Sinistra di questo paese, voglia sacrificare pure i moderati per difendere un modello politico-culturale-economico che fa acqua da tutte le parti? E lo faccia senza che uno straccio di stampa libera non reagisca? Sono francamente stupefatto.
Ormai è certificato: il 55% degli italiani (in termini di voti e di seggi raccolti dai tre partiti di opposizione) è contro l’establishment. Votando Emma Bonino costoro hanno pure voluto contarsi, ora sappiamo quanto valgono: il 2,5%. Cinque anni di Ceo capitalism, sette partendo dal mini golpe del 2011, tutti i miliardi del QE di Mario Draghi distribuiti a pioggia (che pagheranno i nostri nipoti), ed ecco il risultato che consuntiviamo: più precarietà, più povertà, più insicurezza (ovviamente solo percepita).
Siamo arrivati al punto che nel buio delle urne i “perdenti della globalizzazione”, come per anni li hanno ridicolizzati, si sono rivoltati.
Un segnale debole dell’ottusità culturale, e pure comunicazionale dell’establishment oggi al potere, l’ho trovato su Repubblica qualche giorno fa. Nell’intervista al filosofo Axel Honneth della Scuola di Francoforte, già assistente di Jürgen Habermas, costui, a proposito della scuola e dell’Italia dice: “Magari il figlio di un elettore della Lega, se impara bene l’inglese a scuola e partecipa a degli scambi, un giorno farà scelte diverse”. Solo un intellò, per di più tedesco, poteva con così poche parole emettere così tante volgarità, classiste e fascistoidi, su un paese e un popolo che non conosce, radicalizzando ancor più l’odio verso la classe dominante.
Quando una dozzina d’anni fa ho iniziato il lavoro di analista la mia “mazzetta” dei giornali prevedeva i Big Five dell’establishment, poi Giornale, Foglio, Fatto, Manifesto, e il giornale che mi pubblicava. Quindi ho cominciato a sforbiciare, che senso aveva leggere tutti i Big Five visto che seguivano tutti la stessa linea editoriale filo Ceo capitalism con piccole impercettibili nuance?
Ora dei Big Five ne leggo solo più due, mi sa che presto arriverò a uno. Compro ancora Foglio, Fatto, ma evito di entrambi tutta la parte politica, guardo i loro direttori sui talk, parole e linguaggio del corpo mi bastano per capire. Del Giornalenon mi perdo Nicola Porro e il Blog di Marcello Foa, il Manifesto solo nel fine settimana, quando esco da messa, poi Italia Oggi e Verità.
Posso dirlo? Mi sfuggono le logiche di business degli editori, la loro sudditanza psicologica verso un potere ormai frastagliato, al limite della ridicolaggine. Direttori e principali editorialisti mi paiono come ripiegati su loro stessi. Un tempo vedevo il grande giornalista come un attore della commedia dell’arte (immaginavo recitasse senza copione), ora molti mi paiono attori appena usciti da Actor’s Studio, sempre più simili alle sementi geneticamente modificate di Monsanto.
Chissà se dopo la batosta elettorale editori e giornalisti torneranno all’antico, faranno giornalismo d’inchiesta anche sull’establishment, e si possa nuovamente dire, con schiena dritta e un pizzico di strafottenza: “È la stampa, bellezza”. Mal pagati, precarizzati, uberizzati, ma uomini.
Riccardo Ruggeri, 17 marzo 2018