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Ma De Gasperi non teorizzò le idiozie di Ventotene

Tutti a dire: “Il Manifesto va contestualizzato”. Davvero? Eppure c’è chi, nello stesso periodo, non pensò di abolire la proprietà privata

Altiero Spinelli, De Gasperi e Manifesto di Ventotene
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La tesi predominante per difendere il Manifesto di Ventotene, i cui più imbarazzanti passi sono stati letti (non interpretati) da Giorgia Meloni alla Camera scatenando l’ira funesta delle opposizioni, è la seguente: quel documento va contestualizzato, bisogna considerare “l’integrità del testo, il tempo, il luogo, la condizione di prigionieri del fascismo degli autori, quali fossero allora i riferimenti politici correnti”. Tradotto: sì va bene, teorizza l’abolizione della proprietà privata e una sorta di dittatura delle élite, ma che vuoi che sia. Erano altri tempi.

Facile. Troppo facile. A parte che seguendo questo schema pure gli scritti di Lenin andrebbero riabilitati in toto solo perché in parte realizzati “in esilio” e contro “il regime zarista”. Comunque. Siamo andati allora a ripescare un altro documento scritto più o meno in quegli anni non da Altiero Spinelli o Ernesto Rossi, bensì da Alcide De Gasperi. Non un puzzolente liberista, come questo nostro sito. Né un sovranista meloniano, visto che i riferimenti politici della premier sono legittimamente altri. Vi chiederete: perché scomodare l’esponente DC? Perché, per quanto estimatore di Spinelli, con cui di certo condivideva lo spirito europeista, quando pubblicò le sue Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana mai osò ipotizzare una “dittatura del partito rivoluzionario”, teorizzare l’abolizione della proprietà privata o denunciare che “la prassi democratica fallisce clamorosamente”. Anzi. L’esatto contrario. Il Manifesto di Ventotene risale al 1941, lo scritto di De Gasperi alla fine del 1942. Sono dunque documenti quasi “coetanei”, eppure così radicalmente diversi.

Chi volesse leggerlo nella sua interezza, può trovarlo qui.

De Gasperi parte da un presupposto “indispensabile”, ovvero “la libertà politica”. Di tutti. Non di una élite. Lì dove il Manifesto di Ventotene sostiene che “il popolo ha sì alcuni bisogni fondamentali da soddisfare, ma non sa con precisione cosa volere e cosa fare”, il fondatore della Dc scrive invece che “il popolo italiano sarà chiamato a deliberare”. Lì dove Spinelli teorizza un regime rivoluzionario illuminato e considera “la metodologia politica democratica” un “peso morto nella crisi rivoluzionaria”, De Gasperi gli oppone “una democrazia rappresentativa, espressa dal suffragio universale, fondata sulla eguaglianza dei diritti e dei doveri e animata dallo spirito di fraternità (…): questo deve essere il regime di domani”. Lì dove a Ventotene si discute di abolire, limitare, estendere “caso per caso” la proprietà privata, la nuova DC – che pure chiedeva di eliminare monopoli, “concentrazioni industriali e finanziarie” e non disdegnava il controllo pubblico di imprese strategiche (salvo indennità) – riconosce tuttavia come “elementi propulsori” della struttura economica italiana “l’iniziativa privata ed il libero mercato”. E questo fa tutta la differenza del mondo.

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Attenzione. Non stiamo dicendo che De Gasperi sia in toto il nostro cup of tea. E forse non lo sarebbe neppure della Meloni. Poco ci interessa in questo momento, anche perché ridurre il pensiero di De Gasperi e di Spinelli in poche righe sarebbe presuntuoso. Quello che vogliamo affermare è che l’essere “esiliati” dal fascismo, o trovarsi di fronte all’avanzare del nazismo, non può giustificare tutto. In particolare le tesi più strampalate. Il Manifesto di Ventotene avrà sicuramente lodevoli spunti. Ma l’errore dei Serra Boys sta tutto nel trasformarlo in un testo sacro e non criticabile, per di più da distribuire ancora oggi come fondamento della civiltà moderna. Come abbiamo visto, in quegli anni, pur oppressi dalla dittatura, si potevano formulare idee molto più democratiche. E accettabili.

Giuseppe De Lorenzo, 20 marzo 2025

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