Leggete fino in fondo questa superba lezione di un giovane studente ventenne ai nostri colti professori che citano Antigone per la vicende SeaWatch.
Le scrivo perché vorrei muovere delle critiche all’articolo di Roberto Vecchioni apparso oggi ne “La Repubblica” dal titolo “La Capitana Antigone”, che le ho anche sentito citare nell’odierna Zuppa. Io non sono altro che un umile, ventenne, studente del primo anno di Giurisprudenza, pertanto ciò che mi accingo ad argomentare potrebbe essere tranquillamente ripetuto da chi, come me, abbia frequentato con un bravo professore e studiato con un minimo di profitto un corso di filosofia del diritto. Carola non può in alcun modo essere paragonata ad Antigone. Nella narrazione che fa Vecchioni la “meravigliosa” Antigone-Carola rappresenta il bene mentre Creonte-Salvini il male. Questa interpretazione non è corretta, e per capirlo bisogna muovere dalle origini della tragedia greca.
Ora, una ragazza che disubbidisce alle leggi in nome del proprio sentimento d’amore, pagando il gesto con la vita, è sicuramente una storia estremamente emozionante e ricca di pathos, tuttavia i greci non andavano a teatro come noi oggi andiamo al cinema. Le rappresentazioni teatrali nascono in seno alle celebrazioni di Dioniso, il dio nato due volte, il dio che ci ricorda che qualora vogliamo raccogliere la realtà in schemi prestabiliti arriva qualcosa a scompigliarli. Ecco perché secondo Aristotele la tragedia non è rappresentazione di caratteri (buono/cattivo) o di personaggi, ma di azioni. Nell’agire l’uomo è infatti rimesso interamente a se stesso, l’azione nella tragedia non è né regolare né regolata ma “regolantesi”. L’uomo non agisce in una sola direzione, bene/male, ma è libero, crea un’alternativa, sfugge a quanto è stato prestabilito, proprio come Dioniso.
E c’è di più. La tragedia non era un semplice atto di culto, ma un mezzo per educare la collettività, tanto che, per essere rappresentata, doveva vincere un “concorso pubblico”. Ci permettiamo adesso, alla luce di quanto scritto, di fare una considerazione banale. Avrebbero mai potuto i magistrati ateniesi autorizzare la rappresentazione di una tragedia (anzi, farla vincere!) che esalta la disubbidienza alle leggi cittadine? Evidentemente no, ed infatti non è questo il tema su cui vuol farci riflettere Sofocle. Non c’è nessun diritto naturale a cui Antigone si appella, i Greci nemmeno ne avevano l’idea, non vi sono ragioni di cuore (casomai ve ne sarebbero di pratiche, visto che morti tutti i maschi della sua stirpe alla ragazza non era più garantita rappresentanza processuale). Ella semplicemente rispetta un altro diritto, ugualmente positivo, che è quello “comune” dei greci, fondato sulla consuetudine, che imponeva di seppellire i morti. Non disubbidisce all’editto di Creonte, semplicemente non lo considera. Abbiamo qui due ordinamenti che si scontrano, quello cittadino e quello comune.