Per dire come funzionano le cose a Sanremo. Arrivano quattro mocciosi e pare il secondo avvento di Cristo. Ma questi didascalici, caricaturali Maneskin, così tanto agitarsi, così poco da dire, hanno appena rimediato due scoppole epocali per la loro acerba carriera: trombati ai Grammy, dove hanno preferito una artista vera, la jazz singer Samara Joy, anche se Victoria l’ha presa con filosofia esistenzialista: “Io sono sexy e questo è quello che conta”. Sai quando un artista si pone precisi obiettivi artistici, tipo rielaborare il rock and roll e il blues dei ladri in una dimensione inglese, la famosa British Invasion destinata a cambiare il mondo della musica e della cultura popolare.
Maneskin, massacrati dalla stampa internazionale
Questi hanno orizzonti più pedestri, i cerottini, i pruriti intimi e le giarrettiere Gucci. Il disco nuovo si è visto appioppare uno squillante 2 dalla rivista Pitchfork, snobbetta ma assai influente: “Terribile, non c’è niente da salvare qui”. In America Atlantic c’è andato giù altrettanto piatto, alludendo a “una mediocrità che ha del tragico”. La stampa internazionale li ha massacrati quasi al completo; non certe lingue usurate di casa nostra, indignate come la giustizia offesa: come osate? Chi siete, che volete? Sì, ma quanti siete? I Maneskin sono un prodotto tipico, come il prosecco e Chiara Ferragni.
Ecco, questa è precisamente la filosofia di Sanremo: tutti geni e solo trionfi qui, se uno non si adegua finisce dritto in fama di rompicoglioni. Lo dicono anche di noialtri di questa testata (vengo a sapere da infiltrati), ma o fai il tuo mestiere conquistandoti una certa libertà di vedere le cose per quelle che sono, o fai altri lavori, che per pudore chiameremo comunicazione.
Egonu, monologhetto deludente
Magari ci si nasce pure, di qua o di là, ma tant’è: non si può dire, secondo il Comunicatore Unico, che la presenza di un presidente è quanto meno irrituale e per di più condotta in un modo ancora più stravagante, al limite della tanto sbandiera correttezza istituzionale; e non si può dire che il peana che ha sciolto Benigni sconfina dal servilismo per addentrarsi nel leccaculismo più imbarazzante. Allo stesso modo non si può dire che Egonu è finita, in chiaro delirio egolatrico, a dar dei razzisti a chi la invita, prendendoci per il culto e per il cachet, no, bisogna flagellarsi, “a prescindere”. Peccato, perché Egonu la sua figura la fa: sconfinata, statuaria, assai più disinvolta di chi l’ha preceduta. Una che, in gergo, “riempie”, per dire che ruba l’attenzione, il che le crea non pochi problemi con le compagne. Disgrazia vuole che la carica agonistica e protagonistica venga spesa malamente: lotta continua lei, ma gotta continua per noi tutti. Certo, se le parole pesano, sono macigni le fandonie della capricciosa Egonu che “vuole tutto subito” e si è tatuata una scritta, “qui e ora”, a testimonianza che puoi essere di qualunque colore ma l’ambizione dei figli privilegiati di questo zeitgeist resta la stessa: sciocca, pretenziosa, indifferente a un mondo che urla di dolore.
E se pure ottengono tutto subito, qui ed ora, non basta ancora e danno i numeri. Egonu è stata sputtanata dalla smentita di Vanity Fair: cara vittima, tu quelle cose sull’Italia di merda in cui non figliare le hai dette e noi abbiamo la registrazione. Una scivolata da damnatio memoriae, che non manca di sortire le dovute conseguenze: se al suo cospetto Amadeus gira al largo mentre Morandi, che s’incarica di gestirla, sembra quasi in soggezione e si muove come in un campo minato, l’atteso monologhetto antirazzista a conti fatti è una pistola scarica: le frasi “strappate dal contesto”, insomma la colpa è sempre di noi stronzi di giornalisti, sono l’unico accenno polemico. “Io sono io”, spiega la Marchesa del Grillo, e potrebbe dire: “Io sono io e le mie circostanze”, con Ortega y Gasset, che parlava dei “bambini viziati della democrazia”. Il resto è diplomazia un po’ arruffata, io mi sento diversa, io mi sento in colpa, io non mi sento più in colpa, io sono un’italiana, un’italiana vera, viva l’Italia, viva Vasco Rossi. “Viva la Repubblica! Viva l’esercito!”, concludeva il suo comizio Peppone, che però era molto più interessante.
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Tutto qui, Paola? Tutto qui: tanto rumor per nulla, si capisce chiaramente che il pippone glie l’hanno debitamente amputato, hai già fatto abbastanza danni cara e allora salviamo la capra del patriottismo coi cavoli del razzismo. Mi sa che a qualcosa quegli stronzi dei giornalisti, ogni tanto servono. A disinnescare le vane parole, se non altro. Occasione persa per la militanza in brodaglia piddina, qualcuno avrà storto la bocca: dopo cinque minuti di sottovuoto spinto, l’Ariston vien giù in un parossismo di entusiasmo un po’ troppo fantozziano, vale a dire posticcio, cartonato: applausi, fiori, s’avanzino i Coma Cose. Per dire come vanno le cose qui.
Poca musica, tanta politica
Politica, la solita politica. Che Sanremo sia una questione di potere non di arte lo si capisce da questo: nessuno parla di cantanti, di canzoni e tutti parlano solo di politica, di risvolti politici, di polemiche politiche. Mattarella impancato e impalcato, regale, 92 minuti di applausi ma nessuno sa perché. Benigni, questo guitton di Firenze col suo opportunismo costituzionale. Ferragni che assume su di sé la causa delle donne del mondo cioè lei e solo lei. Il marito che tenta la provocazione antigovernativa con la Rai che tutto sa e tutto gli consente, e poi lo molla. Blanco che picchia le rose in una metafora anarcoinsurrezionalista, tutto il potere al popolo dell’Ariston. Fagnani che ammolla il pippone da don Milani pariolino sui delinquenti che, a carcerarli, diventano delinquenti (tutti liberi, come predica esistenzialmente Chiara e, più sul concreto, Cospito?).
E poi l’alta diplomazia, per così dire, tra Lucio Presta, Pd, e il Quirinale, Pd. Cose penose, ma l’aspetto o il pretesto artistico è perfino peggio. Rosa il Chimico, il travesta, Levante, altra travesta, avete fatto caso che qui tutti non sembrano più quelli che erano? A parte quelli di poltrone e sofà che son nati così. Gli Olly, i Giammaria, i Sethu, gli LDA figlio di Gigi d’Alessio, non sono discutibili perché non sono proponibili, non sono raccontabili nemmeno in chiave sarcastica; le Paola e Chiara, le Levante, gli altri dei mesti ritorni sono meno che meteore, sono riempitivi. Discorso lievemente diverso per questo Tananai, che comunque una sua strada la farà. Ma insomma chi sono questi? Chi li ha mai visti? Su TikTok? Ci son di quelli, come Lazza, che ti fanno diventare Mescal, il ladrone di Trinità: “Questo mi è nuovo, non l’ho mai picchiato prima”. Ma niente paura, sto a 800 chilometri e me la cavo con 4 parole: sei peggio dei Maneskin.
C’è Mengoni in ecopelle che pare scappato dai Village People; e c’è un branco di cosi di nome “Colla zio” la cui canzone comincia così: “Ci son quelli che puliscono i cessi”. Cioè quello che dovrebbero fare loro; arriva il figlio di Gassmann in canottiera proletaria, alla Pietro Secchia, praticamente un comunista dalla voce callosa, ma parliamoci chiaro: questa è manovalanza, mentre a un livello (non molto) superiore c’è la varia umanità dei Cugini di Campagna che paiono usciti da una vignetta della Settimana Enigmistica, la Oxa ruzzolata fuori di testa, la Giorgia che lasciamo perdere, le terzine fluidificanti Ariete e Madame, il trio Evercringe, Al Bano ottantenne che fa le flessioni, Morandi che fa il ramazza, Facchinetti che ancora non s’è ripreso dalla rapina e ulula dolente e stonante. Ma la vera libidine di questa sera è l’incontro ideale tra l’autore di “Champagne” e i responsabili di “Am beeeghin”: Peppino di capre.
Il Festival dell’Unità
Il pubblico non è che risponda proprio come vuole la propaganda ossessiva, sta sotto gli 11 milioni quando se ne aspettavano 13, certo l’audience è mostruosa, 62 su 100 guardano questa fiera delle vanità, ma i numeri alla fine sono numeri. E se chi scrive conosce un po’ i suoi polli, dietro i fondali fioriti delle conferenze stampa rituali coveranno mugugni, ansie, inviperimenti, manie di persecuzione, miraggi. Fiera delle vanità e dell’autodafè. Qui ha ragione Porro, questo Festival de l’Unità è tutto un darsi addosso, siamo razzisti, siamo inquinanti, col tipico modo comunista di recitare l’autocritica: dove avete sbagliato, compagni? Noi che compagni non siamo, tiriamo dritto, impermeabili alle ambasce sovvenzionate di Paola Egonu. Nell’orgia miracolistica, nel provvidenzialismo mistico tipico del neoliberismo ottimista, sì, ci saranno guerre, terremoti, carestie ma tutto si aggiusta, tutto procede nel senso della storia illuminato dal sol dell’avvenire festivaliero, siamo qui a tirar giù veli, a scoprire altarini, non dico prenderli a calci come le fioriere dell’Ariston.
Chiara Ferragni ha suscitato imbarazzo anche se la comunicazione è pagata al gran completo per definirla la nuova Carrà. Il marito, anche lui un Frankstein sponsor, l’imbarazzo l’ha mitridatizzato: in una sbrodolata di parole in libertà, zum tang tang, infila il suo cancro e arriva alle escandescenze giovanili del nuovo potere di Fratelli d’Italia, ai saluti romani; come se lui non fosse uno che scrive filastrocche di un maschilismo, di un sessismo infame – i guinzagli, le cagne, gli schiaffi, i ginocchioni – da far impallidire il fascio più fascio.
Sono spigolature, cose tangenziali a un Festival che non c’è, che propone la fuffa dell’half playback per i dilettanti Maneskin e l’altra fuffa dell’autodafè politicante per coprire la polvere di stelline genderizzate, poveruomini e poveredonne che neppure le trame più spregiudicate riescono a spiegare. Loro saranno fluidi, ma il festival è molto binario, è Giano bifronte, è il festival dei frignoni e dei fregnoni. I frignoni son quelli che si piangono addosso dall’alto delle loro gioventù milionarie, i fregnoni quelli che gli credono. Ci crede? Ci casca, come dice il conte Mascetti della moglie Alice, “secca e rifinita come il suo nome”, povera donna. Ma come si fa a credere a una Paola Egonu che dichiara tutto e il suo contrario e poi dà la colpa ai soliti stronzi dei giornalisti, senza immaginare che quelli si cautelano?
Figurine in cerca d’autore
Il Festival è ipocrita, ospita figurine di innocua pruderie ma non dimentica la sua matrice piccoloborghese. C’è questo Rosa il Chimico che dice “il rossètto”, con la “e” larga come una padella, alla milanese di periferia, che copia, anche lui, il Renato Zero dei bei tempi, ma con dei costumini in saldo, quando l’altro faceva tutto da solo e proponeva sartorie sontuose; ma quando si tratta di “spiegare” la sua “canzone”, inesorabilmente egoriferita, zio parla del “triangolo lui, lei, l’altro” quando il Rosa ha spiegato che trattasi di poliedro tutto al maschile, “Ho scritto la canzone mentre il mio produttore mi veniva addosso”. Quando si dice la commistione tra alto e basso, senza capire bene come applicarli, come catalogarli. Benigni che fa lo spiegone costituzionale è basso, ma Mattarella è alto e benedicente. Il monologo di Chiara non è né alto né basso, è Chiara, Fedez è bassissimo, Egonu è altissima per costituzione, il comico Duro non si è capito se sia alto, ritto, o basso, moscio o solo da bar, le allegorie di Morandi sono altissime: quel portar via i petali violentati, quel raccontarsi – a Sanremo tutti si raccontano – fin nelle funzioni fisiologiche, come la volta che si cagò addosso, parole sue, durante un concerto e dovette cambiarsi i pantaloni. Qualcosa che davanti alle serata sanremesi può succedere anche a noi, col pigiama. Qualcosa di cui parlare, insomma.
E davvero non è colpa nostra se non c’è altro da dire, se il menu è tutto qua. Non si capisce così bene come quando Morandi duetta col Sangiovanni, mandato “dalla mamma a prendere il latte”, che dopo 60 anni avrà pure preso il caglio. Ora, questo Sangiovanni semplicemente non può cantare: interpreta come un fanciullo disfunzionale delle medie, ma perché il vecchio Gianni è cascato anche lui nel cupio dissolvi? Poi dirlo scandalizza, ma non tutti nascono con la vocazione dei servi. Alla fine Sanremo riesce nel sortilegio più infame: convincere tutti, quasi tutti che si può lapidare Cristo in croce, si può dare fuoco al quartier generale, si può eccedere nell’attacco personale, meschino sui politici, ma sul Festival no, il Festival “è”, come in quella pubblicità hegeliana.
Il Festival va rispettato, nel senso mafioso, guai a dirne male, qualche critica costruttiva, qualche ironia incipriata, ma raccontarlo in controluce, fargli il contropelo, questo no, questo non è professionale. Così come su Greta non si può, il gender festivaliero è ugualmente indiscutibile. Nessuno tocchi Tananai, Leo Gassmann, Madame Ariete, zio Ama e il direttore Coletta che ha d’arcobaleno vestito la Costituzione, ultima, definitiva liturgia nazionale.
Max Del Papa, 10 febbraio 2023