Giustizia

Mani Pulite, il clamoroso retroscena di Gherardo Colombo

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Che dietro la furia giustizialista di Mani Pulite si celasse una sorta di rivoluzione atta a sostituire per via giudiziaria la classe politica che aveva governato l’Italia per quattro decenni era noto ormai da tempo. Che uno dei magistrati-rockstar di quel pool che, a suon di avvisi di garanzia e carcerazioni preventive, rase letteralmente al suolo la Prima Repubblica potesse arrivare fare certe rivelazioni, è invece una novità assoluta.

Il magistrato in questione è Gherardo Colombo, pm di punta della Procura di Milano al tempo di Tangentopoli, il quale, come rivela Il Riformista, ha riportato nero su bianco nell’introduzione al libro del compianto Enzo Carra (pubblicato postumo), dei clamorosi retroscena fino ad oggi sconosciuti ai più.

Stando alle confessioni di Colombo, nel luglio 1992, allorquando le indagini di Mani Pulite erano ancora alle battute iniziali, fu in pratica suggerito a taluni esponenti politici del tempo (non è dato sapere i nomi, almeno per il momento) di abbandonare la vita pubblica in cambio dell’impunità. “Eppure non una persona sarebbe andata in carcere se, come suggerito nel luglio del 1992, la ‘politica’ avesse scelto di seguire la strada dello scambio tra ricostruzione dei fatti ed estromissione dal processo. Chi avesse raccontato, restituito e temporaneamente abdicato alla vita pubblica non avrebbe più avuto a che fare con la giustizia penale”.

Queste le sconvolgenti rivelazioni del membro del pool milanese che racconta, senza neanche troppi giri di parole, la proposta indecente avanzata dalla Procura meneghina alla “politica”, intesa nella sua accezione più ampia, ovvero in quanto potere politico. In pratica, una sorta di trattativa segreta Stato-Tangentopoli, come la definisce Piero Sansonetti dalle colonne del Riformista, con un potere dello Stato, quello giudiziario, che di fatto propose alla politica di abdicare per aver in cambio l’immunità. Sconvolgente, sì. Ed anche illegale, dal momento in cui la proposta in questione rappresenta una palese violazione del codice penale, e, nella fattispecie, dell’art. 338, che punisce, ed anche abbastanza severamente (le pene prevedono fino a sette anni di reclusione), la minaccia a corpo politico dello Stato.

La “trattativa” poi saltò, e l’accordo non ci fu. Ma soltanto perché in quell’occasione la politica si dimostrò, e di molto, migliore rispetto alla magistratura e non volle cedere all’immorale ricatto dei giudici milanesi. Questo tuttavia, non bastò ad arrestare la fame giustizialista del pool meneghino che, come noto, sarebbe comunque riuscito nei mesi successivi a decapitare la classe politica di governo, e con essa la Prima Repubblica, a colpi di clava giudiziaria.

Insomma, la “trattativa” non si poté concretizzare per l’indisponibilità della politica a farsi da parte, ma i magistrati trovarono comunque altre vie per mettere in atto, con la connivenza dei media e della ‘grande finanza’, il golpe mediatico-giudiziario che nel biennio ’92-‘94 soppresse dalla scena politica i partiti storici della prima Italia repubblicana.

Salvatore Di Bartolo, 5 aprile 2023