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Marchionne, i due insegnamenti di un fuoriclasse

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Con l’uscita di scena di Marchionne dalla Fiat si chiude una delle storie manageriali di maggiore successo in Italia. Ne possiamo trarre due fondamentali insegnamenti.

1) Il primo riguarda la «rilevanza» degli uomini, dei singoli. Quando Marchionne arrivò nel 2004 in Fiat, l’azienda era praticamente fallita e con un deficit manageriale apparentemente incolmabile. Lui stesso era un dirigente come tanti. Esce oggi con un patrimonio di mezzo miliardo, accumulato negli ultimi quindici anni. Fino ai suoi cinquanta era uno dei tanti, pagato come un amministratore Rai, con il tetto di Renzi per intenderci. Esistono i fuoriclasse e fanno la differenza. Un’azienda fallita, una città in bancarotta, un Paese indebitato, se trovassero un manager abile o un politico illuminato ce la possono fare. Nessuno è condannato all’inferno. Anche le missioni impossibili, sono fattibili se si trova la persona giusta.

Riccardo Ruggeri che la Fiat conosce bene, avendone percorso tutti i gradini dalla fabbrica ai consigli di amministrazione, sostiene che Marchionne sia certo un genio, ma del tipo «affarista» e che l’ultimo affare, cioè la vendita di tutta la Fiat, sia la sua incompiuta. Anche perché gli acquirenti possibili, i cinesi, mal verrebbero digeriti da Trump, che sulla Fiat d’America, cioè la Jeep, ha diritto di vita e di morte.

2) Arriviamo così al secondo grande insegnamento. Marchionne per primo ha capito che l’Italia non sarebbe più stata tra i grandi dell’industria. E si è comportato di conseguenza. Ha mollato, cosa impensabile, la Confindustria; ha snobbato il sindacato. Ha utilizzato la politica, con la stessa furbizia ideologica di Enrico Mattei. Ha estratto più valore possibile da tutto ciò che la lunga storia Fiat gli consegnava: la Ferrari e il lusso, la Maserati e il suo appeal, la 500 e il suo potere iconico. Non è riuscito con Lancia e Alfa. Ha venduto la Fiat alla Chrysler, facendo finta che avvenisse il contrario. Oggi alcune banche d’affari stimano il valore della sola Jeep superiore all’intera Fca. Ha spostato cuore e testa a Londra e Amsterdam. Ha tenuto il minimo indispensabile in Italia. Ha usato la finanza al servizio dell’industria. Ha sradicato marchi dalla Fiat, li ha quotati, senza compromettere il valore della casa madre e creando valore per tutti.

Soprattutto per i suoi azionisti. Che non solo lo devono ringraziare (e con le stock option lo hanno fatto in abbondanza) per non avere fatto fallire il proprio giocattolo di famiglia, ma per averli posizionati al centro del risiko del prossimo processo di consolidamento del più importante settore industriale che ancora esista, e cioè quello automobilistico.

Nicola Porro, Il Giornale 22 luglio 2018