Oggi è morto Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura. Ripubblichiamo qui la prefazione di Carlo Nordio al libro “Sogno e realtà dell’America Latina” dell’autore edito da Liberilibri (clicca qui per acquistare).
Il pregio straordinario di questo breve saggio risiede nell’aver dissolto alcuni luoghi comuni sull’America Latina: stereotipi banali, e spesso fastidiosi, sedimentatisi nel tempo attraverso una petulante ripetizione di litanie che hanno inserito l’intero Continente in un’unica cornice di figure quasi macchiettistiche: popoli pigri e rassegnati, dittatori incapaci e corrotti, preti ossequienti (o, all’opposto, rivoluzionari), imprenditori ambigui e pasticcioni, latifondisti reazionari e bigotti, insomma una sorta di umanità di seconda scelta, destinata a restar compressa tra la vitalità dei nordamericani e le ambizioni dei paesi emergenti.
Questo ammasso di pregiudizi non era sorto per caso, e l’Autore ne individua subito l’origine: la tendenza europea, nata già con i primi esploratori, a proiettare nell’America Latina i segni dell’immaginazione, della religione e della mitologia, cosicché ciò che in Europa era irreale si trasformava in quel Continente in realtà quotidiana. Era stato un processo assai tortuoso, che aveva mescolato lo spirito di avventura con quello di evangelizzazione missionaria, le tradizioni della mitologia classica con le fantasiose storielle della narra- tiva popolare, per culminare nella ricerca metafisica della città d’oro (la mitica El Dorado), della Fonte della Giovinezza e infine delle sette città leggendarie. Insomma un mélange di Cuccagna e di Bengodi che segnò il destino del Continente, dove l’Europa avrebbe proiettato “le utopie e le frustrazioni artistiche e ideologiche (anche religiose) nate nel suo seno e condannate, laggiù, a vivere confinate nei regni dell’illusione”. Questa proiezione di aspettative frustrate non si è dissolta nell’inerzia della rassegnazione, ma si è invece convertita in teorie politiche, che hanno individuato nell’America Latina la fucina operosa della rivoluzione proletaria, di cui l’esperienza cubana sarebbe stata l’archetipo e l’esempio da seguire. Ed è questo il motivo dominante di Vargas Llosa, convertitosi al liberalismo dopo l’insoddisfacente esperienza marxiana: l’attribuzione all’America Latina delle utopie occidentali ha subìto una trasformazione: da immagina- ria creazione di eccentriche meraviglie in altrettanto fantasiose elaborazioni di analisi politiche forzate e in- consistenti, che però hanno trovato lo stesso terreno propizio che aveva allucinato i nostri antenati davanti agli zibaldoni dei primi esploratori. Solo così possono spiegarsi le farneticazioni di Régis Debray e della sua scuola, le prediche apocalittiche sull’avanzare del comunismo e sulla sua irreversibile affermazione nel mondo, fino alle stravaganti imposture di Sartre, secondo cui a Cuba si praticava “una democrazia in azione”.
Insomma, fallito il comunismo in Europa e in genere nei paesi industrializzati; smentita la profezia della progressiva proletarizzazione della classe operaia annichilita dal pluslavoro e impoverita dal plusvalore; affermatasi, al contrario, una socialdemocrazia matura e solidale, in pacifica competizione con un liberalismo altrettanto consapevole e moderato, non restava a questi delusi che rifugiarsi nel mito: e questo mito era, appunto, l’America Latina. Un comportamento, rileva Vargas Llosa, identico a quello degli an- tichi colonizzatori, per i quali questa terra non era una realtà ma una finzione.
È vero peraltro che questa mitizzazione ideologica non ha sempre avuto caratteri rivoluzionari. Anche dei razzisti reazionari – come Elisabeth Nietzsche, sorella del filosofo – emigrarono in Paraguay per fon- darvi una colonia, la “Nuova Germania”, di pretesa razza ariana: un’esperienza che si concluse in tragedia. Nondimeno si è trattato di un processo solo apparentemente opposto, ma in realtà analogo e simmetrico a quello precedentemente descritto: il confondere la realtà con l’immaginazione creando paradisi artefatti di ideologismi strampalati.
Tutto questo processo di elaborazione fanatica e tortuosa avrebbe prodotto danni contenuti se fosse rimasto nell’ambito degli espedienti teorici dei maestri di pensiero europei. Ma in realtà, ed è questa un’altra grande intuizione dell’Autore, ha prodotto un effetto curioso: che molti latinoamericani hanno adottato quelle fasulle immagini di sé, e “invece di incarnare la propria realtà, ne hanno creata un’altra in accordo con quei modelli e miti importati”. Ora, se questa sorta di alienazione ha avuto benefici effetti nelle lettere e nelle arti, liberando e stimolando energie creative, è stata invece dannosa e talvolta catastrofica nell’ambito politico, perché ha travisato completamente le caratteristiche di quella particolarissima realtà, sostituendone la problematica concreta con una visione tutta immaginaria.
L’idea di fondo di Vargas Llosa si sviluppa con una serie di argomentazioni serrate e convincenti. Prima di tutto, che le demarcazioni territoriali del Sudamerica sono artificiali, in quanto creazioni imposte dalla colonizzazione che i rispettivi governi, invece di cancellare, hanno legittimato e aggravato, in una sorta di “balcanizzazione” che ne ha determinato il sotto-sviluppo, favorendo nazionalismi e conflitti. In secondo luogo, che le vere differenze che segnano il Continente non sono – appunto – le frontiere nazionali, ma le matrici culturali: l’una occidentalizzata e laicizzante (anche nelle sue componenti religiose), e l’altra indigena, legata a pratiche e credenze di radici preispaniche. Differenze che possono esser colmate solo attraverso una composizione liberale e pacifica, che realizzi un fecondo meticciato in grado di trasformare in minoranze i due sistemi etnici. Infine, che è un’inutile e sterile impresa voler definire ad ogni costo l’identità della cultura latinoamericana. Partendo dalla premessa che l’identità è una categoria individuale e non collettiva, Vargas Llosa conclude che, se identità può esservi, essa può derivare solo da una scelta personale che valorizzi il privilegio di appartenere a una comunità, ma non ne sia vincolata da un’imposizione più o meno tribale.
Ebbene, proprio perché la ricchezza dell’America Latina risiede nell’esser un microcosmo dove coabitano quasi tutte le razze e culture del mondo, il compito dei suoi abitanti dovrebbe consistere nel valorizzare questo amalgama, dove è germinato un alto “coefficiente di originalità letteraria e artistica” e nel trasferire questa apertura nella vita politica, rimasta ancorata, con qualche eccezione, a un passato di caudillos e camarilllas. Un percorso orientato ad allineare il Continente alle democrazie europee, di cui esso costituisce “un prolungamento ultramarino”, che pur mantenendo una personalità diversa discende da una radice comune.
Tutto sommato, questo saggio costituisce uno spietato atto d’accusa contro le scriteriate utopie di quegli intellettuali di sinistra che, delusi nelle loro fallite palingenesi, si sono rifugiati nell’immaginazione di culture esotiche e primitive del tutto estranee alla realtà del Continente; a quest’ultimo, i venerati cattivi maestri hanno arbitrariamente attribuito la funzione di esprimere un assetto conforme alle loro aspirazioni frustrate di cataclismi rivoluzionari.
Le nostre democrazie, in conclusione, saranno anche noiose e inidonee a ispirare le forti emozioni degli sconvolgimenti epocali, ma sono le uniche in grado di vitalizzare, sia pur tra oscillazioni anche fallimentari, la tolleranza e in definitiva la civiltà. L’utopia, conclude saggiamente Vargas Llosa, è stimolante e proficua nella letteratura, nell’arte e nella vita privata, ma è fatale nell’ambito sociale e politico, dove solo la visione realistica e il pragmatismo del possibile sono in grado di portare – nella legalità e nella libertà – la prosperità e il progresso. E, come tutti i liberali realistici, anche noi concordiamo con le parole dell’Autore che in America Latina – e, aggiungiamo sommessamente, non solo lì – c’è bisogno di meno deliri e di più sensatezza e razionalità.
Carlo Nordio, 14 aprile 2025
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