Esteri

La battaglia dell'Azovstal

Mariupol, Capuozzo: “Evacuazione? Vi dico perché quella di Azov è una resa”

Lo storico inviato di guerra sull’accordo dell’Azovstal. E poi rivela: “Ora sapremo la verità”

di Toni Capuozzo

Fine della retorica. In italiano, come in ogni lingua, le parole hanno un peso: quella dell’Azovstal non è un’evacuazione. È una resa. Certo, non una resa umiliante, non ci sono forche caudine. Non una resa vile, c’è un ordine del Comando supremo, e ci sono 80 giorni di resistenza, alle spalle. Ma non è una resa con l’onore delle armi: si finisce caricati sui bus verso un ospedale o verso centri di detenzione, con un futuro da scrivere tra scambi di prigionieri e forse processi.

Ma è la fine della retorica, come se l’eroismo fosse un destino rimasto nel ‘900, il secolo cui appartengono gli strenui nazionalismi e i relitti ideologici che in questa guerra affiorano ogni tanto. È la fine della retorica: il Corriere della Sera ancora questa mattina racconta i resistenti dell’Azov come “angeli”, nelle parole dei profughi da Mariupol. Gli altri cittadini che hanno raccontato di essere stati usati come scudi umani non fanno notizia, non esistono sono il lato oscuro di Mariupol, città martire che ha cessato di esistere, senza più Azov.

Ma intanto questa resa introduce un elemento di umanità in una guerra che finora è stata feroce, e senza rispetto per il nemico, e infila una scelta ragionevole – che senso aveva resistere ancora? – in uno scenario in cui la ragionevolezza è sopraffatta da altro. Allargare la Nato, aumentare l’invio di armi e di armi più potenti avvicina o allontana la fine del conflitto? Vincere vuol dire umiliare il nemico o uscire dal conflitto con dignità? Quali rinunce sono possibili e realistiche per l’aggredito e per l’aggressore?

Resta un buco nero, in quei sotterranei. Le voci – russe – sull’esistenza di un laboratorio chimico e sulla presenza di militari di paesi Nato. Il momento della verità è vicino, perché o ci sono o non ci sono, era un bluff di propaganda. E vedremo se qualcuno resta, come un giapponese in un’isola del Pacifico. E resta una perplessità: “Mariupol è ora in rovina dopo un assedio russo che è costato la vita a migliaia di civili”, scrive Open. Buona parte dell’informazione italiana ha ieri evitato di notare che il simbolo dello stragista di Buffalo era lo stesso sole nero nazista che sta sullo sfondo del simbolo di Azov, vanno di fretta. Ma forse potevano aggiungere che ieri a Mariupol hanno riaperto le scuole. Certo, faranno lezioni in russo, certo insegneranno la storia a modo loro, certo all’ingresso ci sono le bandiere secessioniste e quella russa non quella ucraina. Ma gli scolari sono veri, e forse era una piccola notizia, oppure gli altri non esistono, sono tutti figli di Putin, sono occupanti del paese in cui sono nati?

Mi ha divertito amaramente quel retroscena del voto devoto all’Eurovision. L’orchestra vincitrice – in rete c’era perfino il video di un resistente dell’Azovstal che canticchiava il refrain nei sotterranei – in realtà era arrivata seconda alle selezioni ucraine. Solo che la vincitrice, una cantante, si era macchiata di un viaggio in Crimea, per un matrimonio di conoscenti. E non si viaggia tra gli altri, che non esistono, squalificata. Fine della retorica, inevitabile quando si è aggrediti, e difficile da evitare quando si va alla guerra pretendendo di non saperlo.

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