Veramente è Matteo Salvini il grande sconfitto di queste fibrillanti giornate conclusesi con la richiesta di restare fatta a Sergio Mattarella da tutti i capogruppo della maggioranza? Certo, il Capitano, come lo chiamano i suoi, si è mosso freneticamente in questi giorni bruciando una dopo l’altra diverse opzioni, cioè affidando a se stesso un ruolo di king maker che alla fine non ha portato da nessuna parte. O, meglio, ha portato alla conferma dello status quo, al già sperimentato ticket di successo Sergio Mattarella-Mario Draghi.
Valeva la pena agitarsi così tanto? Ragioniamo. Il leader della Lega aveva in questa avventura sostanzialmente due scopi: evitare che il presidente del consiglio “traslocasse” sul Colle più alto; tenere unito il centrodestra e farsene leader di fatto.
1. Il primo punto, che segnava una convergenza completa con le idee di Silvio Berlusconi, è stato tenuto fermo da Salvini, fino ad arrivare ad un risultato positivo, in contrasto con la linea di Enrico Letta che invece da un certo momento in poi si è fatto sponsor di quel passaggio (di cui l’asse Luigi Di Maio-Giancarlo Giorgetti era fra l’altro patrocinatore fin dal primo momento).
2. Quanto al secondo punto, una volta venuta meno la candidatura del Cavaliere, Salvini ha cominciato una serie di incontri a tutto campo in cui ha cercato di convincere i leader del centrosinistra che era giunto il momento, in un’ottica non divisiva, di trovare un accordo ampio su un nome proveniente dall’area di centrodestra ma tale, per spessore intellettuale e profilo alto o istituzionale, da potersi considerare una garanzia per tutti o super partes. Che è lo schema, col segno cambiato, che la sinistra ha sempre fatto proprio. A un certo punto, si è però capito che per la sinistra nessun nome di tal fatta andava bene e che la “non divisività” era per lei concepibile in un sol modo: essa sceglieva uno dei suoi e la destra vi si adeguava portando i suoi voti. Inaccettabile.
A questo punto, sollecitato da una molto assertiva Giorgia Meloni che voleva tentare il “colpo di mano” (col recondito scopo di far cadere il governo e fare andare a sbattere Matteo?), Salvini, da vero leader di una coalizione ha accettato di fare quel passo indietro che forse da solo non avrebbe mai fatto. Per non creare alibi alla sinistra, ha scelto il nome della seconda carica dello Stato, quindi, si auspicherebbe, di una persona già ampiamente legittimata nel circuito istituzionale. Fallito anche questo tentativo, a Salvini restavano due strade: o insistere, con Fratelli d’Italia, sul muro contro muro, con il concreto pericolo che una maggioranza senza la Lega comunque si formasse; oppure accettare l’ipotesi Mattarella come il male minore e come l’unico modo di preservare le istituzioni e la conquistata stabilità dell’Italia.
Al “muoia Sansone con tutti i filistei”, la Lega ha risposto con alto senso idi responsabilità. Inoltre, politicamente, Salvini ha pareggiato i conti con la Meloni e si è pure sottratto a quello che sarebbe stato un abbraccio mortale. Non è solo, o non è tanto, questione di rivalità o leadership fra i due, ma anche una scelta politica: la Lega non può essere un “partito fotocopia” di Fratelli d’Italia, e la sua vocazione deve essere governativa e tendere più al centro e in un’area liberale e di governo. L’unità del centrodestra è importante, rma solo come unità di diversi, cioè di liberali e conservatori nazionalisti. I due corni del toro di destra devono restare due e non diventare uno perché solo così l’alleanza può sperare di riempire quel vasto solco che serve per governare.
Corrado Ocone, 30 gennaio 2022