Il 19 giugno 2016 Virginia Raggi, fino allora praticamente sconosciuta negli ambienti della Roma politica, con il 68% circa dei suffragi, sbaragliò al ballottaggio il candidato del Pd Roberto Giachetti. Fu per il Movimento 5 stelle la prima vittoria significativa a livello nazionale (Roma è la Capitale d’Italia e la “Città eterna” e perciò le sue elezioni non possono essere considerate alla stregua di “locali”). La ragione di quel voto era nei commenti che si sentivano fra le gente comune nei giorni precedenti il fatidico appello: la percezione, anzi la convinzione, che con Ignazio Marino la città fosse giunta a un punto apicale per degrado e inefficienza complessiva del sistema urbano.
Peggio non si sarebbe potuto fare, si diceva. E, poiché tutto il ceto politico era complice di una situazione che faceva di Roma una capitale messa peggio di quelle del “terzo mondo”, meglio era affidarsi ad una persona semplice, pulita, senza esperienza, ma anche senza quei rapporti di potere e sottobosco che nella vita capitolina ti legano e ti rendono complice del marasma generale. Come sia andata a finire, è oggi chiaro a tutti: non solo la giunta Raggi non ha risolto nessun problema, ma, dove ha messo mano, ha creato ulteriori casini fino alla vergogna dell’immondizia per strada e alla scarsa o nulla funzionalità anche dei più essenziali servizi pubblici. Il sindaco, che forte del consenso iniziale riscosso fra i suoi concittadini, poteva fregarsene di ogni diktat di lobby o partito, si è lasciata impelagare sia nel bizantino sistema amministrativo sia nella “lotta per bande” che contraddistingue il suo partito.
Per giustificare la catastrofica performance, visibile già al primo anno del suo mandato, ella si è trincerata dietro alibi infantili, prima, e si è chiusa nei suoi uffici, poi. Col risultato che, se si votasse oggi, a malapena, forse, avrebbe il suffragio di un romano su 10 fra quelli partecipanti. Non solo, probabilmente coinvolgerebbe nel suo tonfo qualsiasi lista politica decidesse di appoggiarla. I romani vivrebbero una sua eventuale ricandidatura come un affronto personale, e al buon senso prima di tutto. Ora, è proprio tenendo presente realisticamente questo contesto, che meraviglia non poco come un giornalista potente e di lungo corso quale è Paolo Mieli abbia potuto portare avanti sulle colonne del Corriere della Sera, che un tempo dirigeva, un ragionamento tutto politichese in cui suggerisce al Pd di “prendere in considerazione” la conferma di Virginia Raggi a Roma (e di Chiara Appendino a Torino) come prezzo da pagare ai 5 stelle sulla strada di una auspicabile “alleanza strategica” fra i due partiti.
Un’alleanza che abbia come fine quello di non far saltare l’equilibrio politico fragilissimo che pure si è raggiunto, e quindi evitare lo “spettro” delle elezioni a primavera. Ora, a parte questa pervicace tendenza a studiare i più macchinosi inciuci pur di tenere in vita un governo agonizzante, quello che fa specie nell’editoriale di Mieli è di non considerare affatto che una candidatura Raggi non avrebbe, con o senza Pd, nessuna possibilità di vittoria finale. Come se il problema fosse la “mancanza di coraggio” e la “profonda pigrizia mentale” del partito di Zingaretti e non il fatto che le elezioni prima che nei palazzi della politica si decidono nel segreto delle urne.