Migranti Albania, ecco perché i giudici sbagliano (spiegato bene)

Certi magistrati stanno tentando di moralizzare il diritto, facendo consolidare ciò che è considerato “politicamente corretto”

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Meloni centro migranti Albania giudici

La tragedia sofoclea di Antigone, che vede la morale contrapposta al potere politico, o meglio il diritto naturale al diritto positivo, torna alla ribalta a seguito del conflitto tra magistratura e governo italiano per quanto riguarda la procedura di frontiera dei migranti. Ebbene sì, la tragedia greca di oltre 2.500 anni fa è fortemente attuale se pensiamo a quello che è avvenuto in queste ultime settimane. Infatti, il decreto della Sezione specializzata in materia di diritti della persona e immigrazione del Tribunale ordinario di Roma del 18 ottobre scorso ha aperto un interessante dibattito non solo giurisprudenziale, ma anche dottrinario, sulla vicenda della mancata convalida dei trattenimenti dei migranti in Albania, e, nello specifico, per quanto riguarda l’analisi della nozione di “Paese sicuro”.

Per la magistratura è Antigone che ha ragione, ovvero la morale, che spingerebbe, nella fattispecie, a far entrare in Italia immigrati provenienti dall’Egitto e dal Bangladesh, in quanto ritenuti “Paesi non sicuri”. Complice è una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 4 ottobre scorso che ha definito la causa CV c. Repubblica Ceca, la quale, così come interpretata dal Tribunale di Roma – ma direi, più correttamente, dalla magistratura in generale -, porterebbe alla conclusione che Paesi quali l’Egitto ed il Bangladesh non possono essere ritenuti “sicuri”, in quanto non lo sono nella loro interezza. Tutto ciò ha sollevato numerosi dubbi sia sull’operato della magistratura italiana, sia sul diritto europeo ed anche sulle posizioni assunte dal nostro governo, che, da ultimo, ha adottato il decreto legge 23 ottobre 2024, n. 158, vale a dire una fonte di rango primaria, che ha sanzionato i Paesi, oggetto di contestazione, come “sicuri”.

In questo modo il governo ha tentato di vincolare la magistratura, la quale, proprio nel decreto del Tribunale di Roma dello scorso 18 ottobre – che, va ricordato, ha fatto da apripista a questo acceso dibattito – non ha dato applicazione al decreto interministeriale del 7 maggio scorso sui “Paesi sicuri”, in quanto atto amministrativo ritenuto viziato da violazione di legge e da eccesso di potere, e ciò è stato consentito, ai giudici, proprio da una vecchia legge liberale del 1865, la c.d. legge Ricasoli, – si tratta nello specifico dell’art. 5 dell’Allegato E – voluta proprio, nell’Italia postunitaria, dalla destra storica al fine di arginare il potere esecutivo.

In realtà, trattandosi di argomenti che rientrano nella sfera della geopolitica e, pertanto, sottratti, a ben vedere, all’interpretazione ed al giudizio della magistratura, il governo ha adottato il decreto legge dello scorso 24 ottobre chiarendo, a livello legislativo, quali sono i “Paesi sicuri”. Ma tale presa di posizione non è piaciuta né alla magistratura né ad una parte della dottrina e soprattutto alla sinistra, in quanto il decreto legge è ritenuto in contrasto con il diritto dell’Unione europea, ed in particolare con la citata sentenza della Corte di giustizia del 4 ottobre, tanto è vero che, successivamente, il Tribunale di Bologna, chiamato a decidere su una questiona analoga, con una propria ordinanza del successivo 25 ottobre, ha ritenuto opportuno il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea per chiarire, definitivamente, quali sono i parametri utili ai fini dell’individuazione della nozione di “Paese sicuro” e per comprendere se il decreto legge in questione sia in contrasto con il diritto europeo.

Contrariamente da ciò che si è sentito in molti dibattiti, va detto, innanzitutto, che la primazia del diritto europeo sul diritto interno è un dato di fatto incontrovertibile, in quanto affermato, negli anni, da numerose sentenze sia della Corte di Giustizia che della nostra Corte costituzionale e ciò è stato reso possibile dall’art. 11 della nostra Costituzione allorché i nostri Padri Costituenti consentirono “alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Ovviamente i Costituenti, all’epoca, non potevano prevedere l’adesione del nostro Paese all’Unione europea, in quanto trattasi di un’esperienza politica e giuridica sorta successivamente, ma della partecipazione della Repubblica italiana alle Organizzazioni internazionali, tra cui l’ONU. Alla luce di ciò, la nostra sovranità è limitata e, pertanto, il diritto europeo prevale sul diritto interno.

Tornando alla decisione del Tribunale di Roma, sorge una domanda: e se Creonte, il re di Tebe e antagonista di Antigone nella tragedia di Sofocle, avesse ragione? E se il potere politico, quello del diritto positivo, espressione della maggioranza, avesse ragione perché, forse, il Tribunale di Roma ha risolto la questione con una interpretazione eccessivamente estensiva rispetto ai principi espressi nella sentenza della Corte di Giustizia? In realtà, analizzando la sentenza europea nel dettaglio, si può comprendere facilmente come la stessa non è sovrapponibile perfettamente al caso Albania. Infatti, il Tribunale di Roma con troppa leggerezza ha rilevato una perfetta corrispondenza tra eccezioni territoriali – relative al caso della sentenza della Corte di Giustizia – ed eccezioni personali, o meglio relative a categorie di persone, per quanto riguarda i migranti provenienti dall’Egitto e dal Bangladesh. Proprio dalla lettura della sentenza della Corte di Giustizia è palese che il contenuto della stessa dica altro. Ecco perché la nozione di “Paese sicuro” è di natura geopolitica e, in quanto tale, solo il governo può darne una precisa definizione che non può essere contestata dalla magistratura.

In effetti, purtroppo, sembra proprio che quest’ultima voglia annientare le ragioni della politica di Creonte, accentuando fortemente il conflitto tra diritti umani e politica, alla luce proprio della perdita di valore della sovranità statale. A tal proposito, utilizzando le parole di Carl Schmitt – uno dei più importanti esponenti dello Staatsrecht del Novecento -, è lampante come si stia tentando di far venire meno le categorie del politico e, di conseguenza, la contrapposizione fondamentale tra amico e nemico nel panorama dello Jus Publicum Europeaeum: si sta incoraggiando, cioè, l’imposizione di un pensiero unico, in cui i diritti sembrerebbero essere il contrario della politica. Si sta tentando, in poche parole, di moralizzare il diritto, ragion per cui quest’ultimo è giusto solo se corrisponde alla morale. Ecco perché è necessario rivalutare la posizione di Creonte: per evitare proprio di far consolidare il pensiero unico e ciò che è considerato “politicamente corretto”.

La magistratura cerca di fare proprio questo, di interpretare nella direzione del “politicamente corretto” – spesso nemmeno giustamente – il diritto dell’Unione europea, vale a dire il diritto di un’organizzazione sovranazionale che produce leggi che la stessa denomina regolamenti aventi lo scopo di disciplinare la vita interna degli Stati membri a discapito della sovranità degli stessi. Ne è un esempio, tra i tanti, l’imposizione delle politiche green all’interno del nostro ordinamento, il cui ragionamento puntuale è descritto ampiamente nell’ultimo libro di Nicola Porro, La grande bugia verde.

In conclusione, alla luce delle recenti trasformazioni geopolitiche, si evidenzia la necessità di reinterpretare il concetto di sovranità quale garanzia per una società libera ed organizzata politicamente, in cui diritti e politica non sono in antitesi tra loro. Ecco perché è il caso di riconsiderare l’autonomia del “Politico” di Schmitt e, allo stesso tempo, le motivazioni di Creonte.

Giovanni Terrano, 17 novembre 2024

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