Giustizia

Migranti, occhio a leggere la sentenza della Cassazione

La Corte Suprema chiarisce che la definizione di “Paese sicuro” spetta alla politica, ma non solo

cassazione migranti Immagine generata da AI tramite DALL·E di OpenAI

La recente sentenza della Prima Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione, pubblicata il 19 dicembre scorso, ha enunciato due principi di diritto fondamentali relativamente alle domande di protezione internazionale di migranti provenienti da paesi designati come sicuri.

Innanzitutto vi è da precisare che tale pronuncia è frutto di una richiesta specifica promossa dal Tribunale di Roma, mediante un’ordinanza del 1° luglio 2024, con cui è stato chiesto, alla Suprema Corte, ai sensi dell’art. 363 bis del codice di procedura civile, se il giudice “sia vincolato alla lista dei paesi di origine sicura approvata con il decreto interministeriale”- del 19 aprile 2019, aggiornata, successivamente con decreto del 7 maggio corso, sottoscritto dal Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale e dal Ministro dell’interno – oppure debba “comunque valutare, sulla base di informazioni sui paesi di origine sicuri (COI) aggiornate al momento della decisione, se il Paese incluso nell’elenco dei «Paesi di origine sicuri» sia effettivamente tale alla luce della normativa europea e nazionale vigente in materia”.

Trattandosi di una questione pregiudiziale alla decisione di merito, la Suprema Corte di Cassazione – attraverso la sua funzione nomofilattica, che, è quella, cioè, di affermare la corretta interpretazione giuridica di una norma sull’intero territorio nazionale – ha stabilito in primis che il giudice ordinario “può disapplicare in via incidentale, in parte qua, il decreto ministeriale recante la lista dei paesi di origine sicuri (secondo la disciplina ratione temporis), allorché la designazione operata dall’autorità governativa contrasti in modo manifesto con i criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea o nazionale” e, in secondo luogo, avendo lo stesso giudice un potere cognitorio – che può, cioè, accertare, in un giudizio, un diritto controverso – “là dove il richiedente abbia adeguatamente dedotto l’insicurezza nelle circostanze specifiche in cui egli si trova”, può non convalidare il trattenimento del migrante in Albania. In quest’ultimo caso, la Cassazione dà particolare rilievo ad una eccezione che è carattere personale.

Sicuramente il punto nevralgico dell’intera sentenza è la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, tanto è vero che, come sostiene la Cassazione, la “questione interpretativa … incrocia una pluralità di fonti (nazionali, internazionali e sovranazionali, n.d.r.) e di formanti (sia giurisprudenziali che, soprattutto, legislativi n.d.r.), nella quale si stagliano i diritti dello straniero che, nel disegno personalista che lega la dignità alla solidarietà e all’accoglienza, la Costituzione protegge come fondamentali, sia direttamente, sia tramite le Carte internazionali alle quali gli artt. 10, 11 e 117 rinviano”. Pertanto, obiettivo principale, per la Cassazione, è la tutela concreta del migrante. Dall’analisi della sentenza – di ben 40 pagine – emergono spunti e riflessioni interessanti, che impongono, però, cautela nel dare giudizi, talvolta, superficiali.

Sicuramente emerge il principio secondo cui il giudice non può sostituirsi al Governo in una scelta geopolitica, qual è, ovviamente, la designazione dei Paesi sicuri e non sicuri. Ma è necessario essere cauti perché la Cassazione non afferma tout court questo principio.
Preliminarmente la stessa chiarisceche la questione va risolta ratione temporis, e, nel caso specifico, “nell’ambiente normativo anteriore al decreto-legge 23 ottobre 2024, n. 158, e alla legge 9 dicembre 2024, n. 187”, in quanto il giudizio è stato introdotto mentre era vigente il decreto interministeriale del 4 ottobre 2019 mentre l’elevazione a fonte primaria della designazione del paese di origine sicuro rappresenta ius superveniens, non applicabile “ratione temporis, nel giudizio principale dinanzi al Tribunale di Roma”.

La sentenza, tuttavia, chiarisce come il decreto interministeriale che individua i Paesi di origine sicuri – di cui l’ultimo, in ordine di tempo, è quello del 7 maggio scorso – non è un atto politico, “posto in essere da un organo costituzionale nell’esercizio della funzione di governo e, quindi, nell’attuazione dell’indirizzo politico”, ma giuridico “perché deriva dalla applicazione dei criteri individuati dagli artt. 36 e 37 dell’allegato I della direttiva 2023/32/UE e dall’art. 2-bis del d.lgs. n. 25 del 2008”. Essendo un atto giuridico può essere ovviamente sindacato dal giudice. Ma in che modo?

E’ qui che si apre la questione relativa alla giustiziabilità dell’atto amministrativo e, nel caso specifico, del decreto ministeriale. Infatti, in ossequio all’art. 5 dell’Allegato E della legge 2248 del 1865 – la c.d. Legge sul contenzioso amministrativo, una vecchia legge liberale proposta da Giovanni Lanza e da Bettino Ricasoli, esponenti liberali della destra storica – l’Autorità Giudiziaria può applicare gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali sempre che siano conformi alle leggi e, oggi, diremmo al diritto nazionale, sovranazionale ed anche internazionale. Alla luce di ciò, il giudice ordinario – a differenza del giudice amministrativo che è un giudice speciale istituito successivamente con la riforma Crispi del 1889, il qualeha il potere di annullare l’atto amministrativo ritenuto viziato – può solo disapplicare, nel caso specifico, il decreto ministeriale in via incidentale, laddove risulti in contrasto con la normativa nazionale, internazionale ed europea in materia di protezione dei migranti. E siccome il giudizio inerisce alla tutela di un diritto soggettivo – ma direi più propriamente, un diritto pubblico soggettivo, secondo la dottrina elaborata dalla giuspubblicistica ottocentesca – qual è quella di protezione internazionale del migrante, il giudizio va incardinato correttamente dinanzi al giudice ordinario il quale, per i motivi prima esposti, può solamente disapplicare l’atto amministrativo ritenuto in contrasto con le fonti superiori, tra cui il diritto nazionale ed europeo. Disapplicare il decreto non significa annullarlo, il quale rimane vigente, ma semplicemente porlo nel nulla.

Invece, per quanto riguarda, la valutazione delle eccezioni personali del migrante, “la valutazione governativa circa la natura sicura del paese di origine non è decisiva, sicché non si pone un problema di disapplicazione del decreto ministeriale”, per cui il giudice ordinario è chiamato a valutare il caso concreto finalizzato alla tutela dello stesso.

Quindi, il problema che si pone è il bilanciamento dei diritti tra cittadini europei e cittadini extraeuropei. Fermo restando che l’acquis di Schengen favorisce la libertà di circolazione di tutti i cittadini europei proprio nello Spazio Schengen, e i migranti extracomunitari continuano ad abusarne, scompensando, quindi, la sicurezza proprio di quest’area, tanto è vero che proprio la direttiva europea 2013/32, nel considerando 44, fa riferimento espressamente all’esigenza di “evitare movimenti secondari di richiedenti”, il giudice nazionale, proprio in virtù dei principi di protezioni internazionale dei migranti, sarà tenuto a valutare concretamente ogni singolo caso che gli sarà sottoposto, dando rilievo, come detto, alle eccezioni di carattere personale.
Alla luce di queste osservazioni, è palese che il Tribunale di Roma,con la sentenza del 18 ottobre scorso – che ha fatto da apripista all’acceso dibattito sul caso Albania – sia incorso in un grave errore, interpretando non correttamente la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 4 ottobre scorso e forzando palesemente una sovrapposizione tra situazioni assolutamente differenti.

In questi termini va letta la sentenza della Suprema Corte di Cassazione, la quale sicuramente chiarisce che la definizione di “Paese sicuro” spetta alla politica, ma afferma, allo stesso tempo, che il giudice ordinario deve necessariamente valutare non solo le eccezioni di natura personale del migrante, ma può anche disapplicare – non annullare in quanto non gli è consentito – il decreto ministeriale, che è un atto giuridico e non politico, laddove in contrasto con le fonti superiori. Ecco perché la lettura della sentenza di questa impone molta attenzione e cautela.

Giovanni Terrano, 2 gennaio 2025

Nicolaporro.it è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati (gratis)