Cronaca

“Mimmo Lucano furbo e povero apparente”. Le motivazioni della condanna

Pubblicate le motivazioni della sentenza di condanna a Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace

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Presunzione d’innocenza, innanzitutto. La vicenda processuale sulla presunta trattativa Stato-mafia ci ha insegnato che fidarsi delle sentenze di primo grado è bene, ma non mantenere ogni legittimo dubbio è forse pure meglio. Dunque il discorso vale anche per Mimmo Lucano, condannato a 13 anni e 2 mesi di galera per presunte magagne sull’accoglienza dei migranti a Riace. Noi, a differenza dei manettari, garantisti siamo e garantisti rimaniamo anche in questo caso.

La condanna era cosa nota. Ma ieri sono arrivate le motivazioni della condanna, redatte dal giudice del Tribunale di Locri che il 30 settembre scorse ha emesso la dura sentenza contro Mimmo Lucano. Stando alla toga, l’ex sindaco di Riace sarebbe stato il capo di una associazione a delinquere e avrebbe “strumentalizzato il sistema dell’accoglienza a beneficio della sua immagine politica”, utilizzando una larga fetta dei soldi destinati ai migranti per la “realizzazione di plurimi investimenti” che “costituivano una forma sicura di suo arricchimento personale su cui egli sapeva di poter contare a fine carriera”.

E qui la faccenda si fa curiosa, visto che Mimmo Lucano ha sempre sostenuto di essere rimasto con un pugno di mosche nel conto corrente. Secondo il giudice Domenico Accurso, benché il modello Riace fosse “invidiato e preso ad esempio da tutto il mondo”, il problema è che l’ex sindaco si sarebbe “reso conto che gli importi elargiti dallo Stato erano più che sufficienti” per gestirlo. Ma anziché “restituire ciò che veniva versato”, avrebbe deciso di “reinvestire in forma privata gran parte di quelle risorse“. “Nulla importa che l’ex sindaco sia stato trovato senza un euro in tasca, come orgogliosamente egli stesso si è vantato a più riprese – si legge nelle motivazioni – perché ove ci si fermasse a valutare questa condizione di mera apparenza, si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza, ignorando però l’esistenza di un quadro probatorio di elevata conducenza, che ha restituito al Collegio un’immagine ben diversa da quella che egli ha cercato di accreditare all’esterno”. Non solo. Secondo il giudice dal processo sarebbero emersi “meccanismi illeciti e perversi, fondati sulla cupidigia e sull’avidità, che ad un certo punto hanno cominciato a manifestarsi in modo prepotente in quei luoghi e si sono tradotti in forme di vero e proprio ‘arrembaggio’ ai cospicui finanziamenti che arrivavano”.

Il diretto interessato ovviamente non ci sta. Dice di essere stato condannato “sulla base di cose non vere”. I suoi avvocati parlano di motivazioni insussistenti. La partita si riaprirà in appello. Per ora, però, dovrà tenersi la condanna (il doppio degli anni chiesti dall’accusa) senza peraltro attenuanti, neppure quelle generiche. “La finalità per cui egli operò per oltre un triennio – scrive infatti il giudice – non ebbe nulla a che vedere con la salvaguardia degli interessi dei migranti, della cui presenza tuttavia ebbe a servirsi astutamente, a mò di copertura delle sue azioni predatorie, solo allorquando furono resi noti i contenuti di questa indagine”.