Venerdì Fabio Riva, uno dei componenti della famiglia a cui hanno scippato l’Ilva di Taranto, è stato assolto da un coraggioso giudice, Lidia Castellucci, a Milano. L’accusa era quella di bancarotta per il crac della holding che controllava l’impianto siderurgico. Il giudice Castellucci ha stabilito che «il fatto non sussiste».
Conviene fare un passo indietro e ricordare l’ubriacatura giudiziaria che investì la famiglia e che portò all’espropriazione dell’azienda, nell’assordante silenzio generale, compresa la Confindustria di Emma Marcegaglia, all’arresto dei componenti della famiglia, al commissariamento dell’Ilva, alla sua conseguente insolvenza e alla svendita a un gruppo straniero, che è cronaca di questi giorni.
Nel luglio del 2012 i Riva vennero arrestati e gli impianti sequestrati per l’ipotesi di disastro ambientale, ancora tutta da dimostrare: anzi, la relazione tecnica con la quale si procedette è tutta in discussione. Dopo un anno l’azienda fu commissariata e, secondo le valutazioni ufficiali dell’epoca, era dotata di un patrimonio netto di 4 miliardi di euro. Con la gestione commissariale la produzione fu dimezzata, le perdite si aggirarono tra i 50 e gli 80 milioni al mese e il patrimonio, nel giro di pochi mesi, fu bruciato. All’inizio del 2015 il Tribunale di Milano decretò l’insolvenza della società: fallita. E qui arriviamo al filone milanese che completa l’accerchiamento giudiziario. Incredibilmente i Riva, estromessi dal luglio del 2012 dall’azienda (arrestarono persino il direttore di stabilimento), commissariata dal giugno del 2013 e dichiarata insolvente nel 2015, furono accusati di aver mandato a carte all’aria un’azienda che non guidavano più da anni e che con loro, al contrario, prosperava. Roba da pazzi.
Il punto delicato è che i Riva, a cui avevano tolto tutto, libertà, dignità e altiforni, continuavano ad avere una parte dei loro affari che andavano alla grandissima: i forni elettrici. Che non hanno nulla a che vedere con Taranto. Con quattro miliardi di fatturato, sono un gioiellino che ancora resiste. Ebbene, l’inchiesta di Milano rischiava di contagiare anche la parte buona delle loro attività: non che Taranto sia la cattiva, ma per l’universo mondo, oggi come allora, sembra un disastro.
Ecco perché nel 2017 i fratelli Riva, Nicola e Fabio, chinano la testa e, con l’accordo della procura di Milano, mettono sul piatto più di un miliardo di euro chiedendo di patteggiare. Un prezzo caro per guadagnarsi la libertà di poter continuare a fare affari. Ma non fanno i conti con la furia giustizialista.
Nonostante l’accordo sia stato fatto con la Procura, i giudici non ci stanno e sostengono che il patteggiamento per bancarotta richiesto da Fabio prevede una pena «incongrua»: cioè i due anni di pena previsti non bastano ai giudici, sono troppo pochi. D’altronde i Riva vengono definiti «criminali abituali». E così arriviamo a venerdì.
Ad un altro giudice che, riguardo a quella accusa di bancarotta, si legge le carte. E probabilmente vede l’impossibilità di condannare qualcuno per un’ipotesi di reato commesso in un’azienda che non guida più da anni. La Castellucci decide dunque che il «fatto non sussiste». Grazie a questa sentenza anche Nicola, uno dei due fratelli che nel frattempo ottiene un patteggiamento, potrà rivedere la sentenza. E si potrà mettere la parola fine su una delle accuse più incredibili di questi anni. Hanno accusato i Riva, a cui da anni avevano sottratto l’azienda, di averla fatta fallire. Due dei perseguitati sono morti e mai sapranno che giustizia terrena è stata fatta.
Val la pena fare un’ultima considerazione generale sul patteggiamento. Molti imprenditori, e non solo, utilizzano questo strumento. Non già perché si sentano colpevoli, ma per ridurre il danno di una macchina infernale che si chiama giustizia penale. E che quando in questo Paese si salda con la cattiva informazione, diventa una morsa da cui conviene uscire prima possibile: meglio il metadone dell’eroina? Non sempre. Ai Riva è stato negato il metadone e da soli, almeno in questa storia, ne sono usciti puliti.
Nicola Porro, Il Giornale 6 luglio 2019